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ROSMINI STUDIES 1 (2014) 171-219 DAVIDE RAGNOLINI ARTE E NATURA NELLO SCRITTO
EXAMEN D'UN ÉCRIT DE J.-J. ROUSSEAU
DI J. DE MAISTRE
The aim of this introduction is to present a little known text by J. de Maistre, published for the first time only in 1870 inside the Oeuvres inédites du comte Joseph de Maistre (vol. IV, Vaton 1870), trying to focus on two main themes: the philosophical meaning of the terms ‘art' and ‘nature' in the Savoyard counter-revolutionary thinker. Although Maistre's critic is directed towards the Rousseauian Discourse on the Origin and Basis of Ine-quality Among Men (1755), the background of the discussion involves some wider theo-retical questions about the metaphysical order of the world, its creatures, and about ‘art' as the result of human historical capabilities. I. UN PENSATORE NEL PANTHÉON E UN MAGISTRATO IN ESILIO Un buon metodo per lo studio di un autore classico suggerisce il suo confronto con un al- tro, facendone emergere più per contrasto che per analogia i temi teoreticamente più significa-tivi. In circostanze fortunate, tale confronto si rivela ancor più fecondo se ad essere coinvolti sono due pensatori antitetici e se uno elabora una critica più o meno sistematica dell'altro. E-sempio di ciò si rinviene nella critica che il conte J. de Maistre sviluppa nei confronti di J.-J. Rousseau, nemico intellettuale, politico, filosofico e, verrebbe da dire, data la circostanza stori-ca della Rivoluzione francese, epocale. Joseph-Marie de Maistre1, nonostante il carattere reazionario del suo pensiero, fu, come 1 Marco Ravera, sulla scorta delle osservazioni di Paolo Treves e Robert Triomphe, nel r i- ferirsi al savoiardo opta per la grafia Maistre anziché de Maistre poiché è lo stesso pensatore fran- cese che in una lettera «invita il suo corrispondente a tralasciare il ‘De', seguendo in questo DAVIDE RAGNOLINI
Rousseau, figlio del suo tempo, sebbene del ginevrino non condivise la sfama. La sua vicenda biografica è determinante per la comprensione del suo pensiero. Il savoiardo Maistre nacque nel 1753 a Chambéry, città del Regno di Sardegna. Figlio di un magistrato del Regno - che (il pa-dre o lui?) ascese a membro del Senato Savoiardo e fu successivamente nominato conte - dopo un'educazione gesuitica e la laurea in giurisprudenza esercitò la professione di magistrato presso la sua città natale. Allo scoppio della Rivoluzione Francese, il trentaseienne Maistre mo-strò un atteggiamento, a detta di Domenico Fisichella, «cauto ma non negativo» nei confronti degli eventi che si stavano verificando2. La sua concezione nettamente ostile alla Rivoluzione maturò a seguito della lettura delle Reflections on the revolution in France (1790) dell'irlandese Edmund Burke, vero e proprio «catechismo della reazione controrivoluzionaria»3. Non fu dun-que una circostanza politica a determinare la svolta nella concezione maistriana degli eventi rivoluzionari, bensì una circostanza intellettuale, sebbene nella sua portata storica e concreta. Va sottolineato infatti che la critica sviluppata da Maistre nell'Examen d'un écrit de J.-J. Rousseau fa perno proprio su una frase di Burke, che a detta del savoiardo avrebbe una grande profondi-tà, di più: «une profondeur qu'il est impossible d'admirer assez»4. Più in generale, la riflessione maistriana, occasionata dalla nuova situazione spirituale- politica francese ed europea immediatamente successiva al 1789, può a nostro avviso essere riassunta in quell'idea burkeana che oppone alla ragione rivoluzionaria, organo critico dell'intero esistente al servizio di un sotteso giusnaturalismo dei filosofi, una «ritorsione siste-matica del termine natura»5 attraverso l'argomento che naturale è ciò che è storicamente dive-nuto. Le armi concettuali del pensiero controrivoluzionario ebbero come arsenale «la cognizio-ne della lenta crescita storica», cognizione che, impiegata dai controrivoluzionari, portava ad argomentare almeno due importanti tesi: la «piena negazione della ragione naturale» e l'«assoluta passività morale che considera cosa cattiva l'esser attivi»6. Quest'ultima affermazio- l'antica regola della lingua francese». Su questo si veda la nota di Ravera nel suo Joseph de Maistre pensatore dell'origine, Mursia, Milano 1986, p. 30. 2 D. FISICHELLA, Joseph de Maistre pensatore europeo , Laterza, Bari 2005, p. 150. 3 J.-J. CHEVALLIER, Les grandes oeuvres politiques. De Machiavel à nos jours, 1949, trad. it. Le grandi opere del pensiero politico , il Mulino, Bologna 1998, p. 246. 4 J. DE MAISTRE, Examen d'un écrit de J.-J. Rousseau sur l'inégalité des conditions parmi les hommes, in ID, Oeuvres complètes de J. de Maistre, nouvelle édition contenant ses Oeuvres posthumes et toute sa Correspondance inédite, Vitte et Perrussel, Lyon 1884, Vol. VII, p. 533 (per gli scritti di Maistre si darà in seguito riferimeno al solo volume delle Oeuvres complètes). Oggetto di questo studio critico maistriano (da qui in avanti designato con l'abbreviazione Examen d'un écrit de J.-J. Rousseau) è il Discours sur l'origine de l'inégalité (1755). 5 J CHEVALLIER, Le grandi opere del pensiero politico , cit., p. 238. 6 C. SCHMITT, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität , 1922, trad. it. Teologia politica, in ID., Le categorie del ‘politico', il Mulino, Bologna 2009, p. 75. Si veda in partic o- ARTE E NATURA
ne, in particolare, è significativamente espressa da Maistre nell'idea che «il meglio è nemico del bene»7: ogni anelito al superamento dello status quo implica necessariamente un atteggiamento negativo e pericolosamente distruttore dell'esistente che riproduce quell'atto antropocentrico che allontana l'uomo da Dio come accade nel peccato originale. Il presupposto teologico-politico sotteso a tale concezione è infatti che «l'ordine temporale […] è l'immagine di un ordi-ne superiore»8, sebbene tale ordine temporale sia inficiato dal peccato originale. Ora, ai fini di un'analisi del concetto maistriano di natura, polemicamente contrapposto a quello di Rousseau, è bene approfondire la collocazione di tale nozione all'interno del pensiero del savoiardo: que-sto è un aspetto così fondamentale che la sua interpretazione ha condotto gli studiosi in dire-zioni opposte. Un aspetto essenziale che consente di distinguere una concezione storicistica da una concezione giusnaturalistica in ambito filosofico-politico è, semplicemente, l'idea stessa di natura che vi è implicata. In secondo luogo, si dovrà analizzare la concezione antropologica maistriana e rousseauiana quale correlato teoretico dell'idea stessa di natura. Nel pensiero maistriano, la questione del peccato originale pertiene alla sfera antropolo- gica, ma essa rimanda di necessità alla sfera teologica e alla questione della creazione della na-tura ad opera di Dio: non vi è peccato originale senza creazione. Per il savoiardo, nel mondo dell'uomo, o meglio nel mondo in cui l'uomo abita, non vi è creazione senza peccato. Ora, l'accento posto da Maistre sulla storia come forza legittimante il fatto in diritto, o come, per usare una significativa espressione di Schmitt, «forza normativa del fattuale», o ancora come «metamorfosi dell'essere in dover essere»9, darebbe l'impressione di un'adesione ad una conce-zione di tipo storicistico, secondo cui vi sarebbe una razionalità immanente al reale che diviene storicamente. È noto infatti che Maistre intende la storia come «politica sperimentale» – con-cezione ribadita anche nel suo saggio su Rousseau – rispetto alla quale ogni indignazione dell'uomo e ogni rivendicazione politica assumono certamente carattere di razionalità ma pa-rimenti di artificialità e astrattezza. Tale avvicinamento del pensiero di Maistre all'alveo stori-cistico presenta però due ostacoli insormontabili. Innanzitutto, l'idea di una razionalità imma-nente alla storia è estranea al pensiero del savoiardo; essa è un'idea problematica per ogni pen-satore religioso. Per il cattolico de Maistre, l'idea di storia si caratterizza per un corso bidimen- lare il quarto e ultimo capitolo del saggio dedicato a La filosofia dello Stato della Controrivoluzione (De Maistre, Bonald, Donoso Cortés) . 7 J. DE MAISTRE, Lettres d'un royaliste savoisien, in Oeuvres complètes, cit., vol. VII, p. 161. Cfr. M. RAVERA, Joseph de Maistre (1753-1821), in G. RICONDA – M. RAVERA – C. CIANCIO – G. L. CUOZZO (eds.), Il peccato originale nel pensiero moderno , Morcelliana, Brescia 2009, p. 711. 8 DE MAISTRE, Oeuvres complètes, cit., vol. IV, trad. it. Le serate di Pietroburgo o colloqui sul go- verno temporale della Provvidenza, a cura di A. CATTABIANI, Rusconi, Milano 1971, p. 190. 9 C. SCHMITT, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum , 1950, trad. it. Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum europaeum», a cura di F. VOLPI, Adel- phi, Milano 2003, p. 63. La prima espressione si trova anche nella Premessa alla seconda edizione di Teologia politica del 1933. DAVIDE RAGNOLINI
sionale10: la storia dell'uomo, che vichianamente è provata dalla «filologia»11, si rivela essere guidata da una causa secondaria costituita dalla Provvidenza. Bisogna allora intendere il carat-tere di sperimentalità che Maistre attribuisce alla politica: essa consiste nei tentativi di razio-nalizzazione limitata compiuti dal soggetto umano agente sul piano storico: l'uomo lapso. Sa-rebbe quindi una razionalità immanente al reale sui generis quella realizzata dall'uomo post-edenico, che per il savoiardo è invece solamente in grado di reiterare la propria caduta nell'orizzonte mondano12. Il secondo ostacolo ad una interpretazione storicistica del pensiero di Maistre viene espli- citato in modo chiaro da Fisichella. Alla domanda che chiede dell'essenza dello storicismo, lo studioso risponde che «pur nelle reciproche differenze e distinzioni, il nucleo di qualunque sto-ricismo è che […] la Natura si riduce progressivamente tutta alla Storia e si esaurisce nella Sto-ria»13. La riduzione della natura alla storia e quindi «l'immolazione dialettica» della natura e della persona alla storia, per usare un'espressione di Jacques Maritain14, costituirebbe l'essenza dello storicismo. Quando Marx scrisse che «la storia, tutt'intiera, non è che una trasformazione continua della natura umana»15, egli non fece altro che sottintendere tale riduzione della natu-ra alla storia, al punto che una natura senza storia non sarebbe nemmeno possibile pensarla: l'essere della natura non può che essere la storia della natura. Se l'uomo fa la storia ed è fatto dalla storia secondo una sua razionalità immanente (che è, del resto, la realizzazione della ra-gione umana stessa), allora lo storicismo si presenta come una divinizzazione della storia. No-nostante il forte senso storico di Maistre, tale concezione non potrebbe avere spazio all'interno 10 Seguiamo qui l'indicazione di K. LÖWITH, Meaning in History, 1949, trad. it. Significato e fi- ne della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia , Edizioni di Comunità, Milano 1972, p. 123: «questa distinzione tra le azioni percepibili e le forze nascoste del divenire storico risale a l- la discriminazione teologica tra la volontà di Dio e quella dell'uomo. Essa è il fondamento della bidimensionalità di storia della salvezza e storia universale – su cui si fonda la comprensione teologica della storia». 11 «[…]ossia la dottrina di tutte le cose le quali dipendono dall'umano arbitrio, come sono tutte le storie delle lingue, de' costumi e de' fatti così come della pace e della guerra de' popoli», G. B. VICO, La Scienza nuova, a cura di F. NICOLINI, Laterza, Bari 1974, p. 9. 12 Si veda su questo punto il capitolo Caduta e storia in RAVERA, Joseph de Maistre pensatore dell'origine, cit., pp. 69-96, in cui tale endiadi è posta a fondamento della critica maistriana alle filosofie illuministiche della storia. 13 FISICHELLA, Joseph de Maistre pensatore europeo , cit., pp. 26-27. 14 J. MARITAIN, La Philosophie morale, Gallimard, Paris 1960, p. 293, cit. in A. DEL NOCE, Karl Marx (1818-1883) e il marxismo, a cura di G. RICONDA in RICONDA – RAVERA – CIANCIO – CUOZZO (eds.), Il peccato originale nel pensiero moderno , cit., p. 679. 15 K. MARX, Misère de la philosophie. Réponse à la philosophie de la misère de M. Proudhon , 1847, trad. it. Miseria della filosofia, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 124. ARTE E NATURA
del pensiero maistriano: «se nello storicismo è implicita o esplicita l'idea che l'uomo si salvi, da solo, nella Storia e attraverso la Storia, per Maistre l'uomo si danna, da solo, nella Storia e at-traverso la Storia»16. Insomma, ogni concezione della storia che muova da un'idea cristiana di natura non può che mettere in scacco qualsiasi storicismo che non sia mosso dalla Provviden-za17. Si deve quindi concludere che quella di Maistre non può essere una concezione storicisti- ca, nella quale l'uomo trasformerebbe e realizzerebbe, pelagianamente, la sua destinazione se-condo ragione; piuttosto, il suo pensiero è definibile come «un metaparadigma giusnaturalista storicamente corroborato»18. Maistre, al contrario di quanto sostiene lo studioso americano Ri-chard A. Lebrun, secondo cui «one of the most striking characteristics of Maistre's own political theory (particularly if it's considered in relation to traditional Catholic theory) in an almost complete neglect of natural-law concepts»19, rimase fermo ad una concezione giusnaturalistica su base teocentrica. Ma non sorprende che un autore come il savoiardo possa essere interpreta-to così diversamente; del resto, è la medesima sorte toccata al suo avversario Rousseau e più in generale ad ogni grande e fecondo pensatore. È proprio tale «andirivieni dal terreno giusnatu-ralista al terreno sperimentale» che può «sconcertare e in qualche modo confondere» gli inter-preti20. Nel commentare questa difficoltà intrinseca al presunto storicismo controrivoluziona-rio, Carlo Galli è stato più netto: «la legittimità è in realtà fuori del tempo storico» e se «la sto-ria è la controprova della verità, non è la verità»21, allora lo svolgimento storico è privo di una propria verità immanente perché subordinato alla verità metastorica di un ordine naturale me-tafisicamente fondato. Ricapitolando, irrazionalismo e giusnaturalismo costituiscono la base del pensiero mai- striano e, parimenti, le ragioni del fatto che il suo non è un pensiero collocabile all'interno 16 FISICHELLA, Joseph de Maistre pensatore europeo , cit., p. 27. 17 Va detto solo di passaggio che lo storicismo di grandi pensatori ritenuti di fede cristi a- na, uno su tutti Hegel, muove dal presupposto eterodosso di identificare la ragione umana con la Provvidenza al punto che questa ne risulterebbe pienamente immanentiz zata: lo Spirito hegelia- no è la ragione del genere umano. Ta le mirabile sintesi di ragione p rovvidenziale e ragione uma- na nello Spirito assoluto contiene uno dei motivi principali che genereranno la scissione in seno alla scuola hegeliana. Questo non fareb be che provare la tesi di Fisichella, interprete autorevole del savoiardo, relativamente alla problematicità dell'utilizzo della categoria di storicismo per un pensatore cattolico quale è Maistre. 18 FISICHELLA, Joseph de Maistre pensatore europeo , cit., p. 18. 19 R. A. LEBRUN, Introduction, in J. DE MAISTRE, Against Rousseau: «On the state of nature» and «On the Soveregnity of the People», McGill-Queen's University Press, Montreal 1996, p . XIX. 20 FISICHELLA, Joseph de Maistre pensatore europeo , cit., p. 17. 21 C. GALLI, Introduzione a ID (ed.), I controrivoluzionari: antologia di scritti politici , Il Mulino, Bologna 1981, p. 18. DAVIDE RAGNOLINI
dell'alveo storicista; per tal proposito essi rappresentano, dunque, i due ostacoli maggiori. Come afferma Fisichella, «la polemica maistriana contro il ‘diritto di natura' della filosofia […] è sviluppata in nome di una concezione che recupera il giusnaturalismo di ispirazione me-dioevale e classica, come contrapposto al giusnaturalismo moderno»22. Quello maistriano è quindi un giusnaturalismo modernamente anti-moderno, polemicamente divergente rispetto a quello teorizzato da Rousseau fin dal suo Discours sur les sciences et les arts del 1750. Nella conce-zione di Maistre il mondo è creato da Dio e anche per Rousseau lo è: «Tutto è bene quando esce dalle mani del creatore delle cose, tutto degenera nelle mani dell'uomo»23. Tale citazione dall'Émile (1762) è stata trascritta proprio da Maistre all'interno del saggio qui discusso24. Ciò che cambia, allora, come si vedrà analizzando lo scritto maistriano, è la concezione antropolo-gica di fondo che porta i due pensatori verso direzioni così diverse. Ogni idea politica presup-pone infatti una posizione dell'uomo rispetto all'idea stessa di natura umana25. Quella maistria-na è assolutamente un'antropologia negativa, e il suo scritto Examen d'un écrit de J.-J. Rousseau ne è un intelligente sviluppo filosofico che si confronta con il paradigma rousseauiano. Anche per il ginevrino l'uomo fa ‘degenerare' le cose sul piano storico; egli è cattivo, eppure non nella sua natura bensì nella sua storicità. La risposta all'identità solo apparente della concezione antro-pologica dei due autori si trova nella loro diversa interpretazione della genesi della vicenda storica umana, cioè nel rapporto tra storia e concezione antropologica: nel peccato originale di Maistre e nel «peccato sociale»26 di Rousseau. Quest'ultimo è precisamente l'oggetto dei due Di-scourses. Entrambi convengono sul fatto che non esista il male in natura (l'Autore di tutte le cose è buono, come anche l'uomo ‘originario'), ma esista il male nella società, che ha come autore l'uomo. Il merito filosofico epocale di Rousseau, però, sta nel fatto che egli concepì il «problema della teodicea» in una dimensione puramente immanente, portandolo «oltre la cerchia della 22 FISICHELLA, Joseph de Maistre pensatore europeo , cit., p. 66. 23 J.-J. ROUSSEAU, Emilio o dell'educazione, a cura di E. NARDI, La Nuova Italia, Firenze 1995, p. 24 DE MAISTRE, Examen d'un écrit de J.-J. Rousseau, in Oeuvres complètes, cit., vol. VII, p. 532. 25«Ogni idea politica prende una certa posizione nei confronti della ‘natura' dell'uomo e presuppone che esso sia ‘per natura buono' o ‘per natura cattivo'. La questione può essere evitata solo apparentemente con spiegazioni pedagogiche o economiche», SCHMITT, Teologia politica, in ID, Le categorie del ‘politico', cit., p. 77. 26 L'espressione è dello studioso di Rousseau Pierre -Maurice Masson, cit. in M. MORI, J.-J. Rousseau (1712-1778), in RICONDA – RAVERA – CIANCIO – CUOZZO (eds.), Il peccato originale nel pensiero moderno, cit., p. 465. ARTE E NATURA
metafisica» per collocarlo «al centro dell'etica e della politica»27. L'origine del male sociale in Rousseau, quindi, non è che sociale, mentre l'origine del male sociale in Maistre è metafisico; l'uno è il male della società, l'altro è quello di Adamo che fa dell'umanità intera soggetto di ma-lattia e peccato originario28. In altre parole, se per Rousseau «non esiste perversità originaria nel cuore dell'uomo»29, nel pensiero maistriano, invece, il peccato originale «si dilata sino alle dimensioni di una vera e propria categoria storica ed ontologica»30. Rousseau si colloca all'interno di un movimento critico della coscienza europea, più o meno illuminista, ma che po-tremmo certamente sussumere sotto quella tendenza, individuata da Reinhart Koselleck, a ri-durre la storia a «peccato originale della natura»31. Per Maistre, che capovolge quest'ultima in-terpretazione, non la storia è un peccato della natura, ma la natura (com'è intesa dal ginevrino) è il prodotto di un peccato storico: quello di sostituire il teocentrismo all'antropocentrismo. Con la posizione di un «nuovo soggetto dell'imputabilità»32 in Rousseau, come diventerà poi e-vidente nell'illuminismo filosofico kantiano, l'autonomia dell'uomo è posta come unità di misu-ra del creato e l'uomo si fa Creatore della società33. Se anche l'autore di Was ist Aufklärung? (1784) interpreterà questa autonomia come uscita dell'uomo da una condizione di minorità di cui è egli stesso colpevole, per Maistre, come si è già detto, non si compie altro che una prose-cuzione della colpa umana della caduta all'insegna di un nuovo spirito del tempo che definirà 27 E. CASSIRER, Die Philosophie der Aufklärung, 1927, trad. it La filosofia dell'illuminismo, La Nuova Italia, Firenze 1952, p. 223. Su questo punto decisivo si veda P. PIOVANI, Il problema del «Contratto sociale», in ID, Indagini di storia della filosofia. Incontri e confronti , a cura di G. Giannini, Liguori, Napoli 2006, p. 85; cfr. anche P. CASINI, Rousseau, CEI, Milano 1966, p. 14: «l'ombra dell'irrimediabile caduta di Adamo è espunta, grazie a Rousseau, dalla natura umana e dalla città terrena». 28 Spiega Fisichella: «la malattia originale, dunque, è la capacità del genere umano di so f- frire tutti i mali, il peccato originale è la capacità di commettere tutti i crimini», Joseph de Mai- stre pensatore europeo, cit., p. 59. 29 ROUSSEAU, Emilio o dell'educazione, cit., p. 81. 30 M. RAVERA, Introduzione al tradizionalismo francese, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 19. 31 R. KOSELLECK, Kritik und Krise. Eine Studie zur Pathogenese der bürgerlichen Welt , 1959, trad. it. Critica illuminista e crisi della società borghese , il Mulino, Bologna 1972, p. 227. 32 CASSIRER, La filosofia dell'illuminismo, cit., p. 222. 33 Su questo punto, il riferimento obbligato è C. GALLI, Joseph de Maistre, in B. BONGIOVANNI - L. GUERCI (eds.), L'albero della rivoluzione. Le interpretazioni della rivoluzione francese , Einaudi, Tori- no 1989, p. 412: «Il nucleo della modernità è individua to da Maistre nella volontà di uscire dallo stato di natura attraverso l'uso autonomo e individualistico della ragione, cioè nello sforzo di ri -creare l'uomo ex novo e di negare quindi i principi naturali dell'ordine sociale». DAVIDE RAGNOLINI
Questi sono alcuni presupposti teoretici che riteniamo imprescindibili per una compren- sione del quasi sconosciuto Examen d'un écrit de J.-J. Rousseau. La Rivoluzione francese stupiva e ammutoliva i suoi avversari europei che, come il Cava- liere francese rappresentato ne Les soirées de Saint-Pétersbourg (1821), apparivano ancora incapa-ci di comprendere il proprio tempo. Nell'ottobre del 1794 la Convenzione Nazionale ordinò che la salma del ginevrino fosse traslata nel Panthéon di Parigi, a cui il nuovo governo aveva dato destinazione laica già dal 1790, rimuovendone l'anno seguente la croce in occasione dei funerali del conte di Mirabeau. Nello stesso anno Maistre, dall'estero, si impegnava in uno studio e in una critica serrata della filosofia del ginevrino con uno scritto che non verrà dato alle stampe. II. LA STESURA DEL PRIMO SCRITTO DI FILOSOFIA: UNO STUDIO SU ROUSSEAU Il testo fu pubblicato postumo solo nel 1870, quarantanove anni dopo la morte di J. de Maistre, anno in cui vennero pubblicate a Parigi le Oeuvres inédites du comte Joseph de Maistre. Una seconda edizione fu poi compresa nel settimo volume delle Oeuvres complètes de J. de Maistre, nouvelle édition contenant ses Oeuvres posthumes et toute sa Correspondance inédite del 1884, che fino ad oggi rappresenta la più vasta edizione delle opere complete del savoiardo e a cui qui si è fat-to riferimento. Da quel lontano 1884, solo nel 1976 viene pubblicata un'edizione critica dello scritto sotto il titolo De l'état de nature, curata dallo studioso Jean-Louis Darcel. Nel 1992 Darcel curerà un altro scritto inedito di Maistre su Rousseau: De la souveraineté du peuple, avente come sottotitolo Un anti-contrat social. A tale pubblicazione seguirà, nel 1996, l'importante traduzione inglese (citata più sopra) ad opera dello storico americano Lebrun, che pubblicherà e curerà una preziosa introduzione di entrambe gli scritti maistriani sul pensatore ginevrino in un unico volume intitolato Against Rousseau: «On the state of nature» and «On the Soveregnity of the People». In Italia è apparsa l'anno scorso una traduzione dello scritto maistriano di cui ci stiamo occu-pando. Essa è basata sulla prima edizione del 1870, che conservava il titolo originale del mano- 34 Su questa importante categoria storico-filosofica si veda DE MAISTRE, Oeuvres complètes, cit., vol. IV, trad. it. Le serate di Pietroburgo o colloqui sul governo temporale della Provvidenza , cit., p. 269: «La filosofia del secolo scorso – il quale agli occhi della posterità apparirà come una delle più vergognose epoche dello spirito umano – nulla ha tralasciato per distoglierci dalla preghiera attraverso la considerazione delle leggi eterne ed immutabili. Essa aveva per obiettivo preferito, direi quasi unico, quella di staccare l'uomo da Dio: e come poteva raggiungerlo più sicuramente che impedendogli di pregare? Tutta questa filosofia non fu in realtà che un autentico sistema di ateismo pratico; io a questa strana malattia ho dato un nome: teofobia». ARTE E NATURA
scritto incompiuto De l'état de nature35, successivamente rinominato dal fratello Charles de Mai-stre con il titolo cui qui si fa riferimento e compreso nella più ampia edizione delle opere com-plete del 1884-1886. È opportuno ora ripercorrere le circostanze storiche e biografiche che hanno occasionato i due scritti polemici sul pensiero di Rousseau. Nel lontano 1792, quando l'esercito della Francia rivoluzionaria occupa la Savoia, Maistre si allontana dalla nativa Chambery per trasferirsi a Losanna. Lì inizierà una grande attività propagandistica controrivoluzionaria, stringendo numerosi contatti epistolari con esponenti laici e clericali del fronte realista e avviando una «frenetica attività di pamphlétiste»36. Il primo prodotto importante di tale attività è costituito dalle quattro Lettres d'un royaliste savoisien, pub-blicate nell'estate 1793. In queste lettere è contenuta, da un lato, una propaganda a favore del regno di Sardegna indirizzata alla popolazione della Savoia occupata dalle forze rivoluzionarie, dall'altro, una proposta indirizzata ai torinesi per la promozione di riforme volte a scongiurare il pericolo di rivoluzione. Ma i progetti politici controrivoluzionari ivi contenuti falliscono. Ben presto la vendita delle sue quattro Lettres viene vietata a Torino, probabilmente per l'atteggiamento politico orientato in senso antirealista da poco maturato in città. In questa vi-cenda si inserisce l'inizio della stesura dei due scritti su Rousseau suggeritagli dall'idea di un vescovo emigrato in Germania. Nel marzo 1794 Maistre preparò l'abbozzo di una quinta lettera savoiarda che spedì al ve- scovo francese Francois de Bovet, emigrato a Friburgo, per un suo vaglio critico. Questi, nella risposta, osservò meravigliato come l'autore, trattando del problema della sovranità del popo-lo, non avesse preso minimamente in considerazione J.-J. Rousseau37. L'esule savoiardo ripensò al suo progetto, abbandonò l'idea di una ‘quinta lettera savoiar- da' e colse il suggerimento del vescovo Bovet intraprendendo uno «studio sistematico» dei la-vori di Rousseau. Interessante notare, con Lebrun, che «more systematically than the political pamphlets he had written before, the essays offer a sustained critique of the ideological foun-dations of the Revolution; in attacking the theory of popular sovereignty Maistre was aiming at the keystone of the revolutionary government's claim to legitimacy»38. L'originalità di questi scritti maistriani si potrebbe quindi rinvenire nella maggiore profondità teoretica con cui il sa-voiardo si confronta polemicamente con i presupposti filosofici della rivoluzione francese. La pubblicazione di tali manoscritti su Rousseau, tuttavia, non fu mai portata a termine: nel 1796 la sconfitta degli ‘uguali' di Babeuf e la crescita del movimento realista in Francia furono eventi 35 J. DE MAISTRE, De l'état de nature, in ID., Oeuvres inédites du comte Joseph de Maistre, section IV, Vaton 1870, pp. 443 -505, trad. it. Stato di natura. Contro Jean -Jacques Rousseau, a cura di F. BOC- COLARI, Mimesis, Milano 2013. 36 RAVERA, Introduzione al tradizionalismo francese, cit., p. 13. 37 Abbiamo seguito la precisa ricostruzione svolta da R. A. LEBRUN, Introduction, in DE MAI- STRE, Against Rousseau: «On the state of nature» and «On the Soveregnity of the People» , cit., pp. X-XI. DAVIDE RAGNOLINI
che cambiarono le priorità della lotta controrivoluzionaria di Maistre. Il savoiardo reindirizzò i suoi sforzi a fini politici più immediati e compose le Considérations sur la France, scritto di sup-porto al fronte controrivoluzionario. Nonostante in queste Considérations, pubblicate nell'aprile 1797, siano presenti echi anti-rousseauiani, «Maistre – scrive Lebrun – would never return to the task of a systematic critique of this particular adversary»39. La mancata pubblicazione degli scritti contro Rousseau, di cui qui vien presentato solo l'Examen o De l'état de nature, fa pensare ad essi come ad una sorta di esercizio filosofico privato, teso a chiarire il proprio pensiero in re-lazione al rivoluzionario ginevrino. Questa resa dei conti intellettuale fu parimenti una sfida teoretica personale su questioni essenziali per la comprensione dei presupposti della ‘crise de la conscience européenne' culmi-nata negli esiti politici della Rivoluzione Francese. Le questioni in gioco erano: sotto l'aspetto storico-politico la continuità della tradizione e sotto quello teologico-antropologico la posizio-ne dell'uomo nell'universo. III. NATURA E ARTE: L'IMPOSSIBILITÀ DI UNA «LIGNE PHILOSOPHIQUE» Si è già detto che lo scritto di cui tratta Maistre nell'Examen d'un écrit de J.-J. Rousseau, indi- cato con l'articolo indeterminativo, non è altro che il Discours sur l'origine de l'inégalité del 1755. Tuttavia, dal punto di vista contenutistico, il problema fondamentale che appare discusso in questo critico examen, il primo (cronologicamente) che Maistre discute come filosofo, è quello che concerne il rapporto tra arte e natura. Tale problema è ininterrottamente sotteso alla ri-flessione filosofica rousseauiana a partire dal primo Discours sur les sciences et les arts, che Mai-stre tuttavia non menziona nemmeno una volta. Da un punto di vista strettamente filologico si possono trovare invece, oltre ai frequentissimi riferimenti al secondo Discours, quattro riferi-menti all'Émile e cinque riferimenti al Contrat social, ma i presupposti filosofici appaiono essere i medesimi. È senza dubbio con sguardo unitario che il controrivoluzionario savoiardo si volge agli scritti del ginevrino: la crisi storico-politica del suo tempo deve apparirgli unitaria pure sotto l'aspetto filosofico-antropologico. La tesi fondamentale del primo Discours, che fece discutere molto negli ambienti non il- luministici ma che suscitò anche critiche da diversi philosophes, consiste essenzialmente nell'idea secondo cui «le nostre anime si sono corrotte via via che le nostre scienze e le nostre arti progredivano verso la perfezione»40. Insomma, nella misura in cui l'uomo si allontana dalla sua ‘natura' – di cui Maistre in modo puntuale mostrerà polemicamente l'ambiguità concettua- 39 Ibidem. 40 J.-J. ROUSSEAU, Se il rinnovamento delle scienze e delle arti abbia contribuito a migliorare i c o- stumi, in ID, Scritti politici, a cura di M. GARIN, vol. I, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 8. All'interno dell'edizione italiana degli Scritti politici di Rousseau in tre volumi a cura di Maria Garin, il primo Discorso è contenuto in un'ampia sezione che raccoglie anche le lettere e le risposte dell'autore relative a allo scritto. ARTE E NATURA
le nell'accezione impiegata da Rousseau – l'uomo degenera e si corrompe: il male si configura storicamente come allontanamento da essa. Lo scritto è molto importante perché, spiega Paolo Casini, «anche se Rousseau lo giudicherà più severamente più tardi, contiene già in germe sia i semi della sua teoria politica, sia i motivi profondi del suo futuro dissidio con i philosophes»41. La vicinanza di questa tesi più alle posizioni calvinistiche che a quelle illuministiche è stata rileva-ta da diversi critici42, al punto che secondo Aldo Visalberghi «la tesi non sarebbe gran che ori-ginale, giacché coincide in gran parte con quella sostenuta in tutti i tempi dal moralismo tradi-zionalista; ma annunciata da uno scrittore che fa parte del gruppo dell'Enciclopedia ha uno speciale valore»43. Quella che Rousseau profila a partire da questo Discours è certamente un'opposizione tra cultura e natura, dove la prima, vero prodotto sociale, non consente di rea-lizzare la felicità umana contenuta invece nella seconda. La «tesi dell'anticultura»44, o dell'innaturalità delle arti e delle scienze, emerge nell'intero primo Discours ed è caratterizzata da un'ambiguità: da un lato Rousseau ne rileva l'origine divi-na («la scienza è per sé un'ottima cosa […]. L'Autore di tutte le cose è la fonte della verità; la co-noscenza di tutto è uno dei suoi divini attributi»)45, dall'altro il suo abuso46 spinge il ginevrino ad attribuire ad essa ogni sorta di male fino al lusso e al danneggiamento delle «qualità guerre-sche» e delle «qualità morali»47. La seconda parte del primo Discours si apre proprio con una tragica descrizione della genesi delle arti e delle scienze, secondo Rousseau «nate dai nostri vi-zi»48. Nelle Observations de Jean-Jacques Rousseau, de Genève, sur la réponse qui a été faite à son Dis-cours (1751) Rousseau torna a parlare aspramente della scienza, senza peraltro lesinare critiche alle lettere e alla filosofia; riconosce che la curiosità umana, alla base della scienza, è naturale, ma sostiene pure la necessità morale e sociale di tenere a freno tutte le inclinazioni naturali (che qui invece assumono un'accezione negativa); argomenta che i selvaggi non avvertono la 41 CASINI, Rousseau, cit., p. 20. 42 Cfr. ivi, p. 21 e A. VISALBERGHI, Introduzione, in J.-J. ROUSSEAU, Emilio, Laterza, Roma-Bari 43 A. VISALBERGHI, Introduzione, in ROUSSEAU, Emilio, cit., p. 11. Lo stesso pedagogista itali a- no, tuttavia, esorta a non trarre facili conclusioni sul primo Discorso di Rousseau osservando, piuttosto ambiguamente, che la tesi ivi contenuta «occorre anzitutto realizzarla in certo modo personalmente», p. 12. 45 J.-J. ROUSSEAU, Osservazioni di J.-J. Rousseau di Ginevra a proposito della risposta data al suo discorso, in ID, Scritti politici, cit., vol. I, p. 32. 47 J.-J. ROUSSEAU, Se il rinnovamento delle scienze e delle arti abbia contribuito a migliorare i c o- stumi, in ID., Scritti politici, cit., vol I p. 21. DAVIDE RAGNOLINI
necessità dell'utilità delle scienze; suggerisce che chi regge la società non dovrebbe aver biso-gno delle conoscenze, e accusa le scoperte scientifiche di accrescere l'avidità umana; sostiene che chi più impara non ritiene di aver imparato mai abbastanza e infine che se l'uomo ha più conoscenze tende a operare male49. Inoltre, sembra suggerire mediante una sorta di sommaria storia del pensiero che percorre l'insegnamento antiscientifico di Gesù, le persecuzioni cristia-ne giustificate dai dotti pagani, lo sviluppo dei settarismi, la guerra fra dotti con la rinascita umanistica medioevale, che i peggiori mali sociali siano derivati dalla cultura, sia essa intesa come scienza o come arte o come lettere50. Rousseau concepisce quindi un'opposizione tra natura e cultura, irrigidita nella sua con- cezione moralistica e dualistica, non intravedendo, quindi, come mostrerà Maistre, la loro in-scindibilità. Del resto, come l'uomo potrebbe produrre da se stesso quell'art humain, male stori-co e sociale, se non in base alla sua natura? Il dubbio avanzato dal pensatore savoiardo si può riassumere nella seguente questione: se l'uomo, creatura di Dio, non può aver ricevuto le pro-prie facoltà senza poterle usare51, non è allora una «sciocchezza» pensare che le facoltà che Dio diede all'uomo in potenza non debbano essere attualizzate? e ancora: ammettendo la necessità che queste facoltà in potenza debbano passare all'atto, potrebbero «événements fortuits» im-pedirne l'attualizzazione sul piano storico52? Questa giustificazione teologica dell'art humain vuole così smorzare la critica antropologica che Rousseau gli ha rivolto. Insomma, qual è il rap-porto che intercorre tra natura umana e cultura se non si presenta una loro cesura sul piano storico? Precisamente a questo problema Maistre si propone di rispondere, ma non prima di aver mostrato analiticamente i diversi significati di quel termine ‘natura' così «abusato»53 dal ginevrino. I significati che Maistre passa analiticamente in rassegna sono quattro. Nel primo la natu- ra è intesa come forza divina che muove l'universo; nel secondo è forza derivata che opera sen-sibilmente sotto la direzione della prima (ad es. la natura chiude una ferita senza chirurgia, senz'arte). Nel terzo significato è intesa come assemblaggio delle parti di un tutto individuale che è a sua volta parte di un tutto, cosicché noi possiamo parlare di natura dell'uomo, del caval-lo, dell'oro, dell'argento, ecc. Infine la natura può essere concepita come stato di cose o esseri prima di subire un intervento umano: di qui l'opposizione di natura e arte54. Rousseau sembra accogliere una prospettiva teistica di creazione dello stato di natura in cui l'uomo è parte, ma basa la sua teoria politica sul presupposto metodologico di «sceverare nella natura attuale 49 Cfr. ROUSSEAU, Osservazioni di J.-J. Rousseau di Ginevra a proposito della risposta data al suo discorso, in ID., Scritti politici, cit., vol I, pp. 36-37. 50 Ivi, pp. 40-44. 51 DE MAISTRE, Examen d'un écrit de J.-J. Rousseau, in Oeuvres complètes, cit., vol. VII, p. 553. 53 Ivi, pp. 522, 530. 54 Cfr. ivi, pp. 522-525. Su questo punto si veda RAVERA, Joseph de Maistre pensatore dell'origine, cit., pp. 69-70. ARTE E NATURA
dell'uomo ciò che è originario da ciò che è artificiale»55. L'uomo sarebbe quindi parte della cre-azione, ma per Rousseau è moralmente responsabile dell'alterazione del creato, cosicché il filo-sofo ricorre a quell'idea di opposizione tra natura ed arte che Maistre sussume sotto il quarto significato di natura. Nel concettualizzare il problema del rapporto tra natura e cultura, il savoiardo dà invece ragione a Samuel von Pufendorf, quando questi sostiene che lo stato di natura non è quello al quale l'uomo è destinato56. Un uomo che viene separato da ciò che produce, un uomo astratto dalla sua arte, è «un homme qui n'est pas homme»; relativamente all'uomo, quindi, è più vera l'affermazione secondo cui «l'état de nature est contre nature»57, delle affermazioni di Rousse-au sull'uomo di ‘natura'. La tesi fondamentale di Maistre, esplicitamente ripresa da Burke, è che «l'art est la nature de l'homme»58, cioè non vi è soluzione di continuità tra natura ed arte uma-na e dunque «il n'y a donc point eu d'état de nature dans le sens de Rousseau, parce qu'il n'y a jamais eu de moment ou l'art humain n'ait existé»59. Questa è la profonda idea che il controri-voluzionario savoiardo avrebbe appreso dal controrivoluzionario irlandese. Se quindi l'esistenza dell'arte umana è sempre stata contemporanea all'esistenza dell'uomo in quanto es-senziale alla sua natura, continua Maistre, «il est impossible de tirer une ligne philosophique qui sépare un état de l'autre»60. Nessuna «linea filosofica», quindi, può essere pensata tra natu-ra ed arte se non attraverso un processo di astrazione, come quello che si trova negli scritti di Rousseau, o nel giusnaturalismo illuminista. Il «non-sens éloquent»61 di Rousseau si mostrerebbe in modo evidente più alla prova dei fatti e degli esempi che all'interno della sua «lingua antifilosofica»62. A partire dalla sua pro-spettiva creazionistica – come del resto sarebbe anche quella di Rousseau – si chiede il savoiar-do: si dovranno scrivere dei libri per distinguere nell'arte del castoro e dell'ape ciò che la vo-lontà divina ha fatto da ciò che l'arte dell'animale ha fatto63? Quando si presenterebbe l'abuso 55 ROUSSEAU, Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini , in Scritti po- litici, cit., vol. I, p. 131. 56 DE MAISTRE, Examen d'un écrit de J.-J. Rousseau, in Oeuvres complètes, cit., vol. VII, p. 526. 57 Ibidem. 58 Ivi, p. 533. La medesima tesi si ritrova anche più sotto, a p. 553; essa, come sopra acce n- nato, costituisce il perno dell'argomentazione maist riana contro Rousseau. 59 Ivi, p. 534: «Non c'è per niente stato alcun stato di natura nel senso di Rousseau, perché non c'è mai stato un momento in cui l'arte umana non sia esistita». 60 Ibidem. 63 Ivi, p. 531: «faudra-t-il aussi faire des livres pour distinguer dans chacun de ces animaux ce que la volonté divine a fait, de ce que l'art de l'animal a fait?». DAVIDE RAGNOLINI
dell'arte umana sulla ‘natura'? Il riparo che l'uomo trova in una caverna è quello conforme ad un uomo ‘naturale'; quello del tetto di fogliame che l'uomo crea farebbe dell'uomo un uomo do-tato di arte umana: «voilà de l'art incontestablement»64. Ma, si chiede Maistre, con il tetto di fo-gliame l'uomo «cessa-t-il alors d'être homme naturel»? Il punto, metodologicamente decisivo, che Maistre rileva, è: «dès qu'on oppose l'art humain à la nature, on ne sait plus où s'arrêter»65. Cioè non si sa, dopo aver posto l'opposizione di arte e ‘natura', dove far arrestare tale opposi-zione, al punto che, seguendo Rousseau in questa sua filosofia di artificiose opposizioni, sarebbe un abuso cuocere un uovo66, ironizza Maistre. Siccome «tout est artificiel dans l'homme […] il s'ensuit qu'en lui ôtant tout ce qui tient à l'art, on lui ôte tout»67; vale a dire che, se guardando all'uomo tutto è artificiale, e ciò che è afferente alla sua vita storica e creativa è una dimensione artificiale, togliendo questa si sopprimerà l'idea stessa di uomo. IV. «TAS DE SABLE»: LA FRAGILITÀ DELL'ANTROPOLOGIA ROUSSEAUIANA Dal punto di vista maistriano non vi sono che due modi per conoscere l'uomo, cioè «l'histoire et l'anatomie»68, delle quali la prima mostra ciò che l'uomo è sempre stato, la secon-da come i suoi organi rispondono alla sua destinazione e la certificano. È la storia, questa «flambeau des faits», che consente al savoiardo di fare tabula rasa di tutto ciò che l'uomo pensa trascendendo il positivismo dei fatti storici, e consente di sussumere l'argomento di ogni suo avversario che non si attiene ad essi sotto l'astrazione. La politica nel suo carattere empirico-sperimentale, la tradizione e i costumi che questa sanziona, la posizione dell'uomo rispetto agli animali (poiché nella concezione maistriana l'uomo non è animale) e al mondo esterno, sarebbe quindi provata dall'«érudition»69, dalla memoria storica di ciò che l'uomo è stato. Per questo Maistre scrive che «l'histoire est la politique expérimentale»70, massima che incide fortemente anche nell'inedito Examen d'un écrit de J.-J. Rousseau. In esso troviamo esposta un'idea ricorrente negli scritti del savoiardo, idea che Fisichella definisce come «principio della vita con mezzi 65 Ibidem. 66 Ibidem: «Suivez ce raisonnement, et vous verrez que c'est un abus de faire cuire un 67 Ivi, pp. 532-533. 68 Ivi, pp. 539, 549-550. 70 Ivi, p. 540. Sarebbe interessante verificare se questa nota citazione maistriana non abbia come luogo originario proprio l'Examen. ARTE E NATURA
violenti»71. Al teocentrismo del giusnaturalismo maistriano, di tipo premoderno, segue una concezione fortemente antropocentrica rispetto all'organizzazione della natura nel mondo se-colare, per la quale regno vegetale ed animale, suolo, fuoco, tecnologia, sono assoggettati al po-tere umano72. Se Rousseau ascriveva l'origine della scienza e delle arti ai vizi umani, Maistre ri-tiene invece che queste derivino dalla socialità umana: «ses art et ses sciences sont des fruits de l'état social», e la stessa natura sociale dell'uomo produce anche «le domaine qu'il exerce sur la terre»73. La storia proverebbe quindi che l'arte è la natura dell'uomo e la natura umana è ciò che l'uomo produce in virtù della sua stessa natura: arte e natura umana sono la medesima realtà. Solo così si può comprendere la tesi di Pufendorf sopra menzionata, la quale ci suggerisce pro-prio che la natura umana è il non essere ‘naturale' dell'uomo mediante l'arte. Il controrivolu-zionario Maistre si rivela ben più generoso del teorico della rivoluzione Rousseau nel giudicare l'art humain, e questa posizione, che ci aspetteremmo invece essere invertita74, cela ancora sor-prendenti conseguenze. Prima di concludere non possiamo non analizzare la funzione politica dell'idea di natura per il teorico del contratto sociale, cioè il suo carattere normativo. Rousseau, questo «preteso filosofo»75 che secondo Maistre vedrebbe solo «la scorza delle cose»76, farebbe iniziare la società con la recinzione di un terreno ad opera di un uomo77. Ma, obietta Maistre, le idee di proprietà e società sono anteriori alla recinzione di un campo78. Il «synchronisme»79 che stabilisce Rous-seau tra recinzione di un campo e fondazione della società è assolutamente arbitrario, senza poi considerare che l'idea di un popolo nomade esclude quella di agricoltura e non per questo la condizione di esistenza nomadica non costituisce un'aggregazione sociale80. Quel che qui preme evidenziare, senza addentrarci nella serrata critica che Maistre muove al secondo Discor-so, è che l'idea di ‘natura' intesa come qualità dell'uomo è in realtà un artificio del filosofo 71 FISICHELLA, Joseph de Maistre pensatore europeo , cit., p. 55. 72 DE MAISTRE, Examen d'un écrit de J.-J. Rousseau, in Oeuvres complètes, cit., vol. VII, p. 550. 73 Ibidem. 74 Maistre è il teorico del tradizionalismo ultraconservatore, Rousseau è quello della riv o- luzione, del cambiamento ad opera dell'uomo che si dà gli s trumenti artificiali (il contratto, la volontà generale) per attualizzarlo. 75 DE MAISTRE, Examen d'un écrit de J.-J. Rousseau, in Oeuvres complètes, cit., vol. VII, p. 537. 77 Si tratta del celebre inizio della seconda parte del Discours. Si veda ROUSSEAU, Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini , in Scritti politici, cit., vol. I, p. 173. 78 DE MAISTRE, Examen d'un écrit de J.-J. Rousseau, in Oeuvres complètes, cit. vol. VII, p. 512. 79 Ibidem. DAVIDE RAGNOLINI
Rousseau, niente più che un espediente intellettuale. All'idea di uomo ‘naturale', a cui è connes-so il giudizio di valore positivo o l'antropologia positiva del ginevrino81, Maistre oppone invece, in modo particolare nel secondo capitolo del suo Examen, una concezione antropologica radi-calmente negativa che ben si compendia nell'affermazione «un être social et mauvais doit être sous le joug»82. Secondo il savoiardo, San Paolo e ancor prima Omero si sarebbero fatti testimo-ni proprio di questa verità antropologico-politica, senza dimenticare la verità teologico-politica del «toute puissance vient de Dieu»83. Potremmo dire che il concetto di natura, se in Rousseau funge da norma per una teoria contrattualistica della politica, in Maistre (con tutte le opportu-ne cautele che si devono impiegare con questo termine) costituisce solo un fatto, provato da quella «torcia dei fatti» che è la storia, su cui edificare una teoria politica di tipo trascendente del potere. Nella storia dei concetti, ogni grande termine, come insegna l'illustre studioso del ginevrino Jean Starobinski, contiene la possibilità di rovesciarsi nel suo antonimo. Il concetto di civiltà, per esempio, può mutare il suo significato normativo: «sotto la stessa penna, il concetto riveste una funzione puramente descrittiva e neutrale»84 cosicché può essere un fatto storico (giustificato in quanto tale da Burke) o una norma rivendicata dalla ‘coscienza anticipante' (nel-la prospettiva dei rivoluzionari francesi). Se in Rousseau è «la parola civiltà», che «invece di es-sere strumento concettuale del pensiero critico, designa un dato sottoposto a critica»85, in Mai-stre è il concetto di natura separata dall'arte ad esser sottoposto a critica e l'art humain, stori-camente configurata, assume una funzione di misura per definire la stessa ‘natura' dell'uomo. La battaglia intellettuale condotta in questo scritto maistriano involge evidentemente il concet-to stesso di natura illuministicamente inteso. Su questo punto si deve convenire con György Lukács quando osserva che il concetto di natura ha subìto nel periodo illuminista un duplice processo di valorizzazione. Da un lato, infatti, lo sviluppo della società borghese tende ad auto-rappresentare i suoi processi di creazione in materia economica, politica, scientifica, ideologica 81 Il tema dell'antropologia positiva si presenta in modo notevolmente semplificato nell'impostazione polemica dello scritto maistriano. Su questo punto si veda MORI, J.-J. Rousseau (1712-1778), in RICONDA – RAVERA – CIANCIO – CUOZZO (eds.), Il peccato originale nel pensiero moderno, cit., pp. 465-476. Nella conclusione di Mori, basata sulla lettera di risposta all'arcivescovo di P a-rigi Cristophe de Beaumont del 1763, si afferma che se è vero che Rousseau oscilla tra il pessim i- smo antropologico sociale ed un'antropologia positiva, è anche vero che «il dettato esplicito dell'antropologia di Rousseau esclude ogni possibilità di interpretare in termini teologico -religiosi la sua concezione del male, né per quanto riguarda l'origine, né per quanto riguarda i rimedi», ivi, p. 476. 84 J. STAROBINSKI, Le Remède dans le mal. Critique et légitimation de l'artifice à l'âge des L u- mières, 1989, trad. it. Il rimedio nel male. Critica e legittimazione dell'artificio nell'età dei Lumi , Einau-di, Torino 1990, p. 14. ARTE E NATURA
secondo una legalità naturale; dall'altro però, una corrente illuminista tende ad identificare la natura con «ciò che non è stato creato dall'uomo, ma che è organicamente sorto in contrasto con le formazioni artificiali, civili-umane»86. Rispetto a queste due antitetiche forme di valoriz-zazione del concetto di natura, quella burkeana-maistriana rappresenta una variante della prima: natura è certamente ciò che l'uomo produce, ma conformemente alla storia e non alla ratio illuminista o giusnaturalista. Rousseau terrebbe invece ferma la seconda definizione di na-tura, quella che ricorda paradossalmente l'antitesi tra nomos e physis posta proprio dai detestati sofisti greci. Dal punto di vista morale, Maistre non ignora affatto che l'uomo sia una «étonnante con- tradiction»87, oscillante tra «moral vers» e «corruption»88, dotato di una ragione che vuole il ma-le ma vorrebbe il bene89. Per questo, solo la forza sarebbe capace di tenere insieme tra loro que-sti esseri sociali e cattivi. Rousseau, ascrivendo il male all'insieme degli uomini, alla società, formula un'idea di legittimità del potere di tipo immanente secondo la quale gli uomini, nella loro essenza socialmente buoni, si accordano per togliere i mali sociali realizzando una sorta di «patto dell'umanità con la propria coscienza»90. Ma un'umanità caduta come quella maistriana, all'interno della quale il solo male che l'uomo si astiene dal fare è costituito dal male che l'uomo non è in grado di commettere91, sarebbe più incline, per mutuare un'idea di Pietro Pio-vani, ad un patto faustiano che ad un simile contratto sociale. Sull'assunto antropologico per cui «l'homme est naturellement bon» poggiano, come castelli di sabbia, gli edifici delle opere rous-seauiane: «c'est sur ce tas de sable que reposent les grands édifices du Discours sur inégalité, de l'Emile et même en partie du Contrat social»92. La fragilità del concetto di natura in Rousseau, secondo Maistre – che ha buon gioco nel trasporlo sul piano storico-fattuale per confutarlo, invece che interpretarlo come diritto e forza normativa all'interno del pensiero critico del ginevrino – sta nel fatto che la natura umana non si può presentare come storicamente isolata dall'arte umana. In questo scritto il realista savo-iardo si mostra davvero «demolitore in nome della tradizione»93, poiché la sua critica, operando una demistificazione della concezione antropologica positiva dell'illuminismo, rivela altresì 86 G. LUKÁCS, Geschichte und Klassenbewußtsein . Studien über marxistische Dialektik, 1923, trad. it. Storia e coscienza di classe, SugarCo Edizioni, Milano 1978, p. 179. 87 DE MAISTRE, Examen d'un écrit de J.-J. Rousseau, in Oeuvres complètes, cit., vol. VII, p. 561. 90 PIOVANI, Il problema del «Contratto sociale», in ID., Indagini di storia della filosofia, cit., p. 87. 91 DE MAISTRE, Examen d'un écrit de J.-J. Rousseau, in Oeuvres complètes, cit., vol. VII, p. 561. 93 E.M. CIORAN, Essai sur la pensée réactionnaire: à propos de Joseph de Maistre , 1977, trad. it. Joseph de Maistre. Saggio sul pensiero reazionario , in ID., Esercizi di ammirazione, Adelphi, Milano DAVIDE RAGNOLINI
una sensibilità politica realistica peculiare alla scuola di pensiero tradizionalista. Il pessimismo storico che marca la sua distanza rispetto la tracotanza del secolo dei lumi, non è assoluto, ben-sì contemperato da un'idea di Provvidenza94 che ha costituito l'intima struttura portante delle sue stesse Soirées. Se nel legame indissolubile di natura ed arte umana pensato da Maistre l'arte è la natura umana, allora l'ascrizione dell'arte alla natura umana comporta l'assunzione dell'uomo in ge-nerale come unità di misura. Eppure tale uomo, definito in base alle possibilità costruttive con-feritegli da Dio, non sembra avere alcuna misura intrinseca della propria arte: l'assunzione di un'astrazione come unità di misura – l'arte è la natura umana, vale a dire tutto ciò che l'uomo produce è conforme alla sua natura – non può che trapassare in dismisura. Se l'uomo cucinando l'uovo, come viene rilevato nel sarcastico esempio di Maistre, non presenta una scissione tra il suo essere naturale e la sua arte perché non cessa di essere naturale quando cuoce un uovo, nemmeno l'uomo che crea la bomba atomica presenterebbe allora una scissione tra l'arte umana e la sua natura. Questa sembra essere un'eterogenesi dei fini dell'argomentazione del savoiardo che, nel giustificare storicamente ciò che l'uomo ha creato, compresa la positività di ogni forma di autorità, si ritrova inconsapevolmente risospinto a giustificare in linea teorica ogni possibile art humain nei limiti di una concezione metafisico-religiosa di tipo teocentrico. È questo antro-pocentrismo nel mondo secolare – rispetto agli altri esseri viventi e all'ambiente stesso, si in-tende – che similmente al teocentrismo dell'universo non possiede alcuna misura e finisce per condurre le premesse teoretiche del savoiardo ben oltre le sue intenzioni. Abbiamo aperto quest'osservazione sul concetto di natura e arte umana tra il rivoluziona- rio Rousseau e il controrivoluzionario Maistre con un pensiero di quest'ultimo, secondo cui non appena si oppongono le idee di natura umana e di arte umana non si sa più dove far arrestare l'opposizione. Riteniamo che tale idea sia stata sufficientemente provata nell'Examen; viceversa, ciò che il pensatore di Chambéry non sembra essere riuscito a cogliere, è che nel momento in cui i concetti di natura umana e arte sono concepiti tra loro in modo inscindibile, non si sa più dove far arrestare le conseguenze di tale unità. Al di là di questa difficoltà teoretica, quello del savoiardo rimane un severo monito, una polemica lezione filosofica sul concetto di ‘natura' ri-ferito all'uomo, che si espone ieri come oggi a fraintendimenti, a strumentalizzazioni, ad «abu-si» di cui l'autore presagiva la potenziale illimitatezza conflittuale: un concetto che può diven-tare un vettore dei più diversi orientamenti ideologici. Se Proudhon suggerì, come ci ricorda Schmitt, che chi parla di ‘umanità' vuol trarci in inganno95, quello che Maistre sembra suggerire è che il concetto di ‘natura umana' dovrebbe essere inteso come una questione tutt'altro che pacifica, mai definibile secondo una sua presunta essenza metastorica. L'Homme et Citoyen dei rivoluzionari francesi e l'homme naturel dei philosophes, non sarebbero altro che nomi, astrazioni che assumono valore normativo solo in riferimento al tempo in cui vengono formulate e da cui 94 Cfr. G. LEGITIMO, Sociologi cattolici italiani: De Maistre, Taparelli, Toniolo , Il Quadrato, Roma 95 SCHMITT, Der Begriff des Politischen, 1927, trad. it Il concetto di ‘politico', in ID., Le categorie del ‘politico', cit., p. 139. ARTE E NATURA
muovono la loro istanza critica. In riferimento al pensiero del savoiardo, si deve pertanto tener presente una fondamentale indicazione di lettura data da Marco Ravera: «‘l'uomo' di cui parla Maistre, anche quando egli si limita ad usare questa espressione generale, non è mai un'essenza ideale e disincarnata, ma sempre e soltanto storico, anzi l'uomo quale appare nella storia, dai tempi più recenti a quelli più remoti»96. Se la distinzione tra arte e natura umana viene a cade-re, ogni discorso sulla natura umana non può che essere un discorso sulla natura storica dell'uomo, poiché la storia è assieme artificio e natura dell'esistenza umana. Tra le molte possibili suggestioni dell'Examen d'un écrit de J.-J. Rousseau, ci proponiamo di sotto-lineare, infine, un aspetto importante per la sua rilevanza metodologica. Il nominalismo antro-pologico di Maistre, che egli ha ben appreso da Burke, è un motivo essenziale della critica con-trorivoluzionaria al pensiero dei philosophes e di Rousseau; esso, diventerà centrale negli svi-luppi e nell'attenzione che la sociologia successiva rivolgerà ai fatti storico-sociali come di-sgiunti da una presunta ‘natura umana' metastoricamente intesa. (Università di Trento) 96 RAVERA, Joseph de Maistre pensatore dell'origine, cit., pp. 77-78.  Un particolare ringraziamento per la realizzazione di questo studio va a mio padre Se r- gio, per la sua generosa disponibilità ad aiutarmi nell a traduzione del testo originale, e al dott. Enzo Piro per avermi fornito un esemplare dell'edizione del 1884 rendendomi possibile un punta-le confronto con l'edizione inizialmente impiegata. Al prof. Paolo Marangon non posso non ric o-noscere la sensibilità dimostrata nei confronti del mio lavoro e un costante incoraggiamento.


JOSEPH DE MAISTRE EXAMEN D'UN ECRIT DE J.- J. ROUSSEAU SUR
L'INEGALITE DES CONDITIONS PARMI LES
The present text, left unfinished by the author, is divided in two chapters: in the first chapter de Maistre makes a terminological and philosophical critique to the idea of the ‘state of Nature' and to the ahistorical conception of inequality included into Rousseau's second discourse; in the second, briefer chapter, he posits the idea of a social nature of man connected with a negative anthropological view and a theory of transcendent power. Throughout the critique J. de Maistre adopts ‘history' and ‘anatomy' as methods for the study of man and for his criticism of the artificial separation between art and nature ad-vanced by Rousseau. I. CHAPITRE PREMIER L'HOMME EST SOCIABLE PAR SON ESSENCE. L'Académie de Dijon, en 1755, mit au concours l'examen de la quest ion suivante: 1
* Questo testo è la trascrizione del manoscritto maistriano incompiuto dal titolo De l'état de nature, pubblicato postumo prima con il titolo originale in J. DE MAISTRE, Oeuvres inédites du comte Joseph de Maistre, section IV, Vaton 1870, pp. 443 -505, e successivamente con il presente t i- tolo, Examen d'un écrit de J.-J. Rousseau sur l'inégalité des condition s parmi les hommes, in ID., Oeuvres complètes de J. de Maistre, nouvelle édition contenant ses Oeuvres posthumes et toute sa Correspondance «Quelle est l'origine de l'inégalité parmi les homes et si elle est autorisée par la loi natu- Il est bien évident que cette question était mal posée: car tous les enfants savent que c'est la société qui a produit l'inégalité des conditions. D'ailleurs, «Qu'est-ce que la loi naturelle?» c'était le sujet d'une question à part. Il fallait done demander: Quel e est l'origine de la société? Et l'homme est-il social de sa nature? Mais cette question ressemblait à tant d'autres que les Académies proposaient pour la forme, qu'elles ne se rappelaient pas le lendemain, et que peut-être même le secrétaire ne leur lisait pas! Quoi qu'il en soit, Rousseau s'empara de ce sujet fait exprès pour lui. Tout ce qui était obs- cure, tout ce qui ne présentait aucun sens detérminé, tout ce qui prêtait aux divagations et aux équivoques était particulièrement de son domaine. Il enfanta done le discours sur l'inégalité des conditions parmi les hommes qui fit beaucoup de bruit dans le temps, comme tout paradoxe soutenu par un homme éloquent, surtout s'il vit en France et s'il a de la vogue. Mais lorsqu'on examine l'ouvrage de sang-froid, on n'est étonné que d'une chose: c'est de voir comment il a été possible de bâtir un volume sur une base aussi mince. Le fond de la ques-tion n'y est pas seulement effleuré. Il n'y a pas une idée, appartenant réellement au sujet, qui ne soit le délire à une question faite dans sommeil. Après l'épitre dédicatoire d'une longueur éternelle et d'un comique précieux, Rousseau entre en matière. inédite, Vol. VII, Vitte et Perrussel, Lyon 1884, così rinominato dal fratello Charles de Maistre per la sua ripubblicazione nella più ampia edizione delle opere complete del 1884 -1886. Una ricostru-zione della storia di questo studio maistriano è offerta nel secondo paragrafo dell'introduzione qui pubblicata. La stesura di questo studio su Rousseau è avvenuta, secondo l e circostanze stori- che indicate, a partire dal marzo 1794 a Losanna, occasionata da una corrispondenza epistolare con François de Bovet, prima vescovo presso la diocesi di Sister on, poi emigrato a Friburgo. Un'ulteriore indicazione temporale ci è suggerita dal riferimento bibliografico dell'autore ad un articolo contenuto nella rivista mensile «L'Esprit des journaux françois et étrangers par une s o- ciété de Gens-de-Lettres»del maggio 1794, che ci consente quindi di collocare il periodo di stes u- ra del manoscritto in un arco temporale non precedente a quella data . La stesura delle note ap- poste da J. de Maistre a questo scritto si presenta formalmente irregolare e priva di un criterio di continuità, testimoniando il carattere privato dello studio svolto dal savo iardo. Ciò spiega proba- bilmente anche il fatto che le consuete formule di rinvio bibliografico (per es.: ibidem, ivi) sono impiegate dall'autore assai liberamente, rivelando così una certa disinvoltura e immediatezza nella stesura. Lo stesso rilievo vale anche per le indicazioni bibliografiche irregolari e lacunose, che talvolta accompagnano passi citati a memoria. Per alleggerire la lettura e, al contempo, per non eccedere con interventi sul testo trascritto, mi sono limitato alla modifica di dettagli edito- riali minori (per ragioni di uniformità redazionale ), e ad allegare un'appendice con riferimenti esplicativi alle opere sommariamente indicate in nota nel manoscritto. JOSEPH DE MAISTRE
L'Académie avait demandé: 1° Quel e est l'origine de l'inégalité?Est-elle conforme à la loi na- turelle? Rousseau renverse cet ordre, mais il se garde bien de répondre directement: il aurait manqué à son génie s'il avait traité la question. Il pose la négative en fait; c'est sa manière. En sorte que la première partie de son ouvrage, au lieu d'être dogmatique, est purement histo-rique. Il suppose que la nature (c'est sa grande machine) créa l'homme dans un état d'animalité; et, au lieu de le prouver, il s'amuse à décrire cet état qui est pour lui l'état primitif ou l'état de nature. Pour une telle description, il ne faut que de la poésie. Il se donne carrière sur ce point, et il atteint la page 94 avant d'avoir seulement songé à prouver ce qu'il avance. La page 95 commence la seconde partie qui n'en a que 90. Rousseau débute par cette phrase célèbre: «Le premier qui, ayant enclos un terrain, s'avisa de dire: Ceci est à moi, et trouva des gens assez simples pour le croire, fut le vrai fondateur de la société civile». Cette phrase n'est cependant qu'une phrase, car l'idée générale de propriété est bien an- térieure à l'agriculture. La sauvage possède sa hutte, son lit, ses chiens, ses instruments de chasse et de pêche, comme nous possédons des terres et des châteaux. Le Tartare Kalmouck, l'Arabe du désert, a des idées de la propriété aussi nettes que l'Européen; il a ses souverains, ses magistrats, ses lois, son culte, et ce pendant il ne juge point à propos d'enclore un terrain et de dire: Ceci est à moi, parce qu'il plait de changer continuellement de place, et que l'idée d'un people nomade exclut celle de l'agriculture. On pourrait croire que l'auteur distingue ici la civilisation de l'établissement de la société, et qu'il n'entend parler que la première dans le passage cité. Il est vrai que Rousseau, qui ne s'exprime clairement sur rien, peut faire naitre ce doute en employant le terme équivoque de société civile; mais cette expression est suffisamment expli-quée par ce qui suit. «Il y a grande apparence», dit-il, «qu'alors» – lorsqu'on s'avisa d'enclore un terrain – «les choses en étaient déjà venues au point de ne pouvoir plus durer comme elles étaient: car cette idée de propriété, dépendant de beaucoup d'idées antérieures qui n'ont pu naitre que successi- vement, ne se forma pas tout d'un coup dans l'esprit humain: il fallut bien des progrès, bien de l'industrie et des lumières, les transmettre et les augmenter d'âge en âge, avant que d'arriver à ce DERNIER TERME DE L'ÉTAT DE NATURE». L'idée générale de propriété, quoiqu'il ait fallu des siècle set des siècles pour la faire naître, fut done le dernier terme de l'état de nature. Par conséquent il ne s'agit, dans le passage ci- té, que de l'établissement de la société puisqu'il s'agit de l'état qui suivit immédiatement le dernier instant de l'état de nature. Il ne fallait done pas dire que la société fut produite par le premier homme qui s'avisa d'enclore un champ, puisqu'elle est visiblement antérieure à cet acte. Non-seulement done Rousseau établit un synchronisme entre la clôture du premier champ et l'établissement de la société; mais il en suppose un entre cet établissement et l'idée de la propriété en général. A la vérité, je crois qu'il ne s'en est pas aperçu: il avait assez peu médité son sujet, pour que cette supposition n'ait rien d'improbable. Après cette assertion générale, donnée comme un axiome, Rousseau entre dans les détails pour montrer par quelles gradations insensibles l'inégalité des conditions s'établit parmi les hommes; et voici les vérités qu'il révèle au monde: Quoique l'homme, dans l'état de nature, n'eût guère plus de commerce avec ses sem- blables qu'avec les autres animaux, cependant, à force de se comparer avec ces bipèdes et sur- tout avec sa femelle, il fit «L'IMPORTANTE DÉCOUVERTE que leur manière de penser et de sentir était entièrement conforme à la sienne» 2. On s'assembla en troupeau3 pour prendre un cerf, par exemple, eu pour des raisons sem- blables4 ; bientôt on trouva des pierres dures et tranchantes pour couper du bois et creuser la terre. Las de l'abri que fournissait un arbre ou une caverne, on fit des huttes de branchages, qu'on s'avisa ensuite d'enduire d'argile et de boue: «première révolution qui forma l'établissement et la distinction des familles» et qui introduisit une sorte de propriété5. Les homes dans cet état, jouissant d'un fort grand loisir, l'employèrent à se procurer plusieurs sortes de commodités inconnues à leurs pères. «Ce fut là le premier joug et la première source de maux»6. On commença à se rapprocher. L'homme, qui s'accouplait tout simplement depuis des siècles, et s'en trouvait fort bien, s'avisa d'aimer: il fut puni de cette corruption par la jalou-sie, et le sang coula7. Heureusement on se mit à chanter et à danser devant les cabanes et autour des arbres; mais voici un autre malheur: «Le plus beau, le plus fort, le plus adroit, le plus éloquent, devint le plus considéré, et ce fut là le premier pas vers l'inégalité et en même temps vers le vice»8. Dans cet état cependant, les homes vivaient «libres, bons, sains et heureux autant qu'ils pouvaient l'être par leur nature; mais dès l'instant qu'un home eut besoin d'un autre, dès qu'on s'aperçut qu'il était utile à un seul home d'avoir des provisions pour deux, l'égalité, déjà atta- quée par l'aristocratie des chanteurs, des danseurs et des beaux homes, disparut enfin, et la propriété s'introduisit»9. Cette grande révolution fut produite par la métallurgie et l'agriculture… «qui ont perdu le genre humain»10. «Les choses étant parvenues à ce point, il est facile d'imaginer le reste»11, et l'histoire est finie (page 126). Total: 30 pages pour répondre à la première question dont il a fait la deuxième. Ce qui suit est un autre ouvrage ou il traite de l'origine du gouvernement et du pacte so- Il se récapitule cependant, et il assigne trois époques distinctives des progrès de 22 Discours, p. 101. 9 Ivi, pp. 117-118. 10 Ibidem. JOSEPH DE MAISTRE
l'inégalité. Le premier terme, dit-il, fut l'établissement de la loi et de la propriété (page 165). Cepen- dant l'aristocratie de la beauté, de l'adresse, etc., fut le premier pas vers l'inégalité et vers le vice (page 112), et les pierres tranchantes, les huttes de branchages, etc., opèrent aussi la première révolution, produisirent le premier joug et furent la source des maux qui accablèrent, depuis, le genre humain (pages 105 et 108). D'où il suit que l'inégalité eut trios premiers termes, ce qui est très-curieux. Le second fut l'établissement de la magistrature (page 165) ou, si l'on aime mieux, la mé- tallurgie et l'agriculture (page 118): on peut choisir. Ainsi l'inégalité eut trios premiers termes, ce qui est très-curieux. Quelle analyse! Quelle profondeur! Quelle clarté! Ce que Rousseau aurait dû nous apprendre au moins par approximation, c'est la durée de la première époque, ou les hommes avaient des lois, mais point de magistrature, laquelle ne pa-rut qu'à la seconde époque. La troisième époque est unique, mais bien remarquable. Ce fut le changement du pouvoir lé- gitime en pouvoir arbitraire (p. 165). Ici Rousseau pousse la distraction au point de confondre le progrès du genre humain en général, avec le progrès des nations particulières. Il considère le genre humain entier comme une seule nation, et il le montre s'élevant suc- cessivement de l'animalité à la cabane, de la cabane aux lois à la magistrature, et du gouverne-ment légitime au despotisme. D'où il suit incontestablement que les sujets des souverains antiques de l'Asie, de ces mo- narques-dieux dont les volontés étaient des oracles, furent bien mieux gouvernés que les Spar-tiates ou les Romains du temps de Cincinnatus, puisqu'ils furent plus près de l'origine des choses, ou que ces mêmes Spartiates et autres républicains des siècles postérieurs n'eurent point un gouvernement légitime parce qu'ils arrivèrent après la troisième époque. Lorsqu'on réfute Rousseau, il s'agit moins de prouver qu'il a tort de prouver qu'il ne sait pas ce qu'il veut prouver, et c'est ce qui lui arrive surtout dans son discours sur l'inégalité des conditions. En gros, il soutient que la société est mauvaise et que l'homme n'est pas fait pour cet état. Mais si on lui demande pour quel état il était done fait, il ne sait que répondre, ou il répond sans se comprendre. Tout bien examine, il se détermine pour l'état de société commencée. «Alors», dit-il, «les re- lations déjà établies entre les home exigeaient en eux des qualités différentes de celles qu'ils tenaient de leur constitution primitive; la moralité commençait à s'introduire dans les actions humaines; et chacun, avant les lois, étant seul juge et vengeur des offenses qu'il avait reçus la bonté convenable au pur état de nature n'était plus celle qui convenait à la société naissante… lorsque la terreur des vengeances tenait lieu de frein des lois». Cet état où les homes vivaient réunis, mais sans lois12, et où la terreur des vengeances tenait 12 Rousseau, qui n'analyse rien, confond la loi écrit avec la loi en général: voilà pourquoi il suppose des sociétés sans lois. Il suppose encore des lois antérieures à la magistrature: ces deux idées sont de la même force. Croyait -il qu'on n' eût jamais puni un meurtre avant qu'il y eût une lieu du frein des lois, est, selon Rousseau, le meilleur état possible. «Plus on y réfléchit», dit-il, «plus on trouve que cet état était le moins sujet aux révolu- tions, le meilleur à l'homme, et qu'il n'en a dû sortir que par quelque funeste hasard13, qui, pour l'utilité commune, EUT DU14 ne jamais arriver. L'exemple des sauvages, qu'on a Presque tous trouvés à ce point, semble confirmer que le genre humain était fait15 pour rester toujours; que cet état est la véritable jeunesse du monde16, et que tous les progrès ultérieures ont été en ap-parence autant de pas vers la perfection de l'individu, et en effet vers la décrépitude de Il n'y a certainement point de raison dans ce morceau; mais au moins il semble que les idées sont claires, et que Rousseau y montre un système fixe. Partout il parie avec éloge des sauvages: à son avis, ils sont très-bien gouvernés18; c'est parmi eux qu'il choisit tous ses exemples; il insiste en plus d'un endroit sur ce grand argument; qu'on a vu des Européens embrasser la vie des sauvages, tandis qu'on n'a jamais vu un sauvages embrasser la nôtre: ce qui prouve tout au plus qu'il est plus aisé de trouver une brute parmi des homes, qu'un home parmi des brutes; il raconte l'histoire vraie ou fausse d'un Hottentot élevé dans notre religion et dans nos usages, et qui, las de tous ses abus, retourne chez ses égaux: il grave cette histoire au frontispice de cet ouvrage, et dans une note à laquelle il n'y a par un mot à répliquer, il nous dit: Voyez le frontispice. On croirait done Rousseau bien décidé pour l'état des sauvages, et cependant on se trom- loi écrite contre le meurtre! Et la costume en vertu de laquelle on puniss ait le meurtrier de telle out elle peine n'était-elle pas une loi, puisque la costume n'est que la volonté présumée du légi-slateur, rendue active pour le redressement des torts, on ne pout concevoir la loi, sans l'organe de la loi, distinct de législateur ou confondu avec lui. En sorte que l'idée de loi est une idée rel a-tive d'une double manière, et qu'il est aussi imp ossible de la concevoir sans magistrats que sans législateur. 14 Le hasard qui EUR DU!!! Effectivement il eut bien tort! La nature EUT DU le faire arrêter pour l'empêcher d'arriver. 15 On dit dans la conversation familière: «Cet home était fait pour telle profession; c'est dommage qu'il ne l'ait pas suivie!» Rousseau s'empare de cette expression et la transporte dans la langue philosophique, suivant sa coutume. En sorte que voilà un être intelligent qui était fait (par Dieu apparemment) pour la vie des sauvages et qu'un funeste hasard a précipité dans la civi-lisation (malgré Dieu apparemment). Ce funeste hasard aurait bien dû ne pas arriver, ou Dieu au- rait bien dû s'y opposer; mais personne ne fait son devoir! 16 Rousseau prend ici la jeunesse d'une nation pour la jeunesse du monde: c'est la même sot- tise que j'ai relevée plus haut. 17 Discours sur l'inégalité, p. 116. 18 Contrat social, I. III, ch. V. JOSEPH DE MAISTRE
perait: deux pages plus haut, il s'est réfuté lui-même. Tout home moral et sensible est révolté par l'abrutissement et par la cruauté de ces sau- vages d'Amérique dont Rousseau ose nous vanter l'existence heureuse; des hordes d'hommes abrutis errants dans les déserts, presque sans idée morales et sans connaissance de la divinité; ayant tous les vices, excepté ceux dont les matériaux leur manquent, des guerres interminables et cruelles, le tomawack, les chevelures sanglantes, la chanson de mort, la chair humaine servie à d'effroyables repas, les prisonniers de guerre rôtis, déchiquetés, tourmentés de la manière la plus horrible! Quels tableaux effroyables! Rousseau l'a senti, et voici comment il prévient l'objection: «C'est faute», dit-il, «d'avoir suffisamment distingué les idées, et remarqué combien ces peuples (sauvages) étaient déjà loin du premier état de nature, que plusieurs se sont hâtes de conclure que l'homme est naturellement cruel, et qu'il a besoin de police pour l'adoucir»19. Le sauvage est done très-loin du premier état de nature. Il y a done plusieurs états de na- ture, ce qui doit paraitre assez singulier; mais enfin, quel est le bon? Car il faut se décider. Rousseau répond: «C'est l'état primitive, et rien n'est plus doux que l'homme dans cet état, lors- qu'il est place par la nature à des distances égales de la stupidité des brutes et des lumières fu- nestes de l'homme civil»20. L'homme sauvage n'est done plus une moyenne proportionnelle entre l'animalité et la ci- vilisation, et il faut chercher cette moyenne proportionnelle entre l'état d'animalité et celui de sauvage. Mais comment un homme beaucoup civilisé qu'un sauvage est-il cependant placé à des distances égales de la stupidité d'une brute et des lumières funestes de Newton, par exemple, ou de tout autre être dégradé? Comment un état quelconque peut-il être tout à la fois intermédiaire et primitif, ou, en d'autres termes, comment le premier état de nature n'est-il que le second? Si la vie sauvage est la jeunesse du monde, et si la genre humain était fait pour y rester toujours, comment la nature avait-elle fait l'homme pour un état où les vengeances sont terribles et les hommes sangui-naires et cruels21, au lieu de le destiner à cet état primitif (qui est le second), où rien n'était plus doux que l'homme22? Mais ce n'est pas tout. Rapprochons encore les deux passages suivants, rien n'est plus pi- «Les peuples sauvages», dit-il, «étaient déjà loin du premier état de nature… où l'homme est place par la nature à des distances égales de la stupidité des brutes et des lumières funestes de l'homme civil» (page 114). «Dans l'état de société commence… lorsque la terreur des vengeances tenait lieu de frein des lois… état où l'on a trouvé presque tous les sauvages… le développement des facultés hu- maines tient un juste milieu entre l'indolence de l'était primitive et la pétulante activité de notre amour-propre» (p. 115 et 116). Ainsi ce bienheureux état intermédiaire existe et n'existe pas chez le sauvage. Presque 19 Discours sur l'inégalité, p. 114. 20 Ibidem. tous les peuples sauvages ont été trouvés à ce point; mais c'est faute d'attention que «plu- sieurs» n'ont pas vu «combine les sauvages en étaient loin». Encore une fois, il ne s'agit pas de prouver que Rousseau a tort (car pour avoir tort il faut affirmer quelque), mais de prouver qu'il ne sait pas ce qu'il veut prouver; qu'il n'a ni plan ni système, qu'il travaille à bâtons rompus, comme il le dit lui-même, peut-être sans le croire23, et que toutes ses compositions philosophiques ne sont des lambeaux cousus et discordants, sou-vent précieux pris à part, mais toujours méprisables par l'ensemble. Infelix operis summa quia ponere totum nescit. (Ici dans le manuscrit de l'auteur il y a une lacune de deux pages) S'il est un mot dont on ait abusé, c'est celui de nature. On a dit souvent qu'un bon diction- naire éviterait de grandes querelles: voyons done quels sens on peut donner à ce mot de nature. 1° L'idée d'un être suprême étant si naturelle à l'homme, si enracinée dans son esprit, si présente dans tous ses discours, il est tout simple de ne voir, dans toutes les forces mouvantes de l'univers, que la volonté de grand Être; et toutes ces forces, qui ne sont elles-mêmes que des effets d'une force supérieure et d'une cause primitive, rien n'empêche qu'on ne les appelle du nom général de nature. C'est dans ce sens qu'un Père grec a dit que la nature n'est que l'action di- vine manifestée dans l'univers24. 2° Tous les philosophes théistes, surtout les anciens, n'ont pas cru que les phénomènes vi- sibles ou invisibles de l'univers fussent l'effet immédiat de la volonté divine. Tout le monde ne se rend pas compte exactement de ses opinions sur ce sujet; mais ai l'on s'examine bien, on trouvera qu'on est porté assez généralement à supposer l'existence d'une force quelconque qui agit en second dans l'univers. Cudworth croyait que c'était une idée indigne de la majesté divine de la faire intervenir immédiatement à la génération d'une mouche25, et c'est ce qui lui fit imaginer sa force plastique. Il ne s'agit point ici d'examiner la valeur de ce système, mais l'on peut dire qu'il est presque gé- néral sans qu'on le sache, et que ce savant anglais n'a fait que circonscrire et environner d'arguments une idée qui repose, sous différentes modifications, dans toutes les têtes. Nous sommes Presque invinciblement portés à croire l'existence d'une force secondaire qui opère vi-siblement et que nous nommons nature. De là ces expressions si communes dans toutes les langues: la nature veut, ne veut pas, défend, aime, hait, guérit, etc. En un mot, cette expression est si nécessaire qu'il n'est possible de s'en passer, et qu'à tout instant nous supposons tacitement l'existence de cette force. Lorsque nous disons que la nature seule a fermé une plaie sans le secours de la chirurgie, si l'on nous demande ce que nous entendons par cette expression, qu'avons-nous à répondre? 23 «J'ai ajouté quelques notes selon ma coutume pares -scuse de travailler à bâtons rompus» (Avertissement sur les notes, p. LXXI). 24 Chrysost., apud Grot., de jure. B. et B. L. I., ch. V. 25 Rad. Cudworthi systema intellect. Hujus univ. cum not. Laur. Moshemii in praef. JOSEPH DE MAISTRE
On nous parlons sans nous comprendre, ou nous avons l'idée d'une force, d'une puissance, d'un principe et, pour parler clair, d'un être qui travaille à conservation de notre corps et dont l'action a suffi, sans le secours de l'art, pour fermer la plaie. Mais cette force, qui opère dans nous, agit de même dans tous les animaux depuis l'éléphant jusqu'au ciron, et dans toutes les plantes depuis le cèdre jusqu'à la mousse. Or, comme il n'y a rien d'isolé dans le monde et qu'il ne peut exister une force indépendante, il faut que tous ces principes individuels soient en relation avec une cause générale, qui les embrasse tous, et qui s'en serve comme de purs instruments; ou bien il faut que cette grande cause, cette nature plastique agisse elle-même dans tous les individus de manière que ce que nous regar-dons comme des forces particulières ne soit que l'action particularisée d'un principe général. Il n'y a pas d'autre supposition à faire. Ainsi done, ou Dieu agit immédiatement dans l'univers, ou il agit par l'entremise d'une puissance immatérielle et unique, qui agit à son tour immédiatement, ou par l'intermède de certains principes qui existent hors d'elle. Mais de quelque nature que soient ces principes, il est certain qu'ils exécutent, médiate- ment ou immédiatement, la volonté de l'intelligence infinie: ainsi en les nommant on la nomme. 3° L'ensemble des pièces qui composent le tout doit avoir un nom, et nous lui donnons as- sez communément celui de nature, en parlant surtout de l'univers que nous habitons. C'est dans ce sens que nous disons qu'il n'y a pas dans la nature deux êtres qui se ressemblent parfaite-ment. Et, par une analogie toute naturelle, nous donnons encore le nom de nature à l'assemblage des parties ou qualités qui composent un tout quelconque, bien que ce tout ne soit lui-même qu'une partie d'un plus grand ensemble. Ainsi nous disons : la nature de l'homme, du cheval, de l'éléphant, de l'or, de l'argent, de til eul, de la rose, de la montre, de la pompe à feu. 4° Enfin, l'homme étant un agent dont l'action s'étend sur tout ce qu'il peut atteindre, il a le pouvoir de modifier une foule d'êtres et de se modifier lui-même : il a done fallu exprimer l'état de ces êtres, avant et après qu'ils ont subi l'action humaine ; et sous ce point de vue on oppose, en général, la nature à l'art (qui est la puissance humaine), comme on oppose en parti- culier le sauvageon à l'arbre greffé. Ainsi donc, on peut entendre par ce mot de nature: 1° l'action divine manifestée dans l'univers: 2° une cause quelconque agissant sous la direction de la première; 3° l'ensemble des parties ou des qualités formant par leur réunion un système de choses ou un être individuel; 4° l'état d'un être susceptible d'être modifié par l'action humaine avant qu'il ait subi cette modifi-cation. Après ces explications préliminaires, on peut raisonner sur l'état de nature, et si l'on a le malheur de se tromper, on n'aura pas au moins celui de ne pas s'entendre. «L'état de nature», dit Puffendorf26, «n'est pas la condition que la nature se propose prin- cipalement comme le plus parfait et le plus convenable au genre humain» ; et ailleurs: L'état de 26 Droit de la nature et des gens. Liv. I, ch. II, § 1, trad. De Barbeyrac. nature pur et simple… n'est pas un état auquel la nature ait destiné l'homme» (§ 4). C'est-à-dire que l'état de nature est contre nature, ou en d'autres termes, que la nature ne veut pas que l'homme vive dans l'état de nature. L'énoncé de cette proposition est un peu étrange; mais qu'on ne s'étonne point : il suffit de s'entendre. Qu'est-ce donc que cet état de nature pur et simple qui est contre nature? «C'est celui où l'on conçoit que chacun se trouve par la naissance, en faisant abstraction de toutes les inventions et de tous les établissements purement humains ou inspirés à l'homme par la divinité, … et sous lesquels nous comprenons non-seulement les diverses sortes d'arts avec toutes les commodités de la vie en général, mais encore les sociétés civiles, dont la forma-tion est la principale source du bel ordre qui se voit parmi les hommes» (Ibid., § 1). En un mot, l'homme dans l'état de nature «est un homme tombé des nues» (§ 2). Puffendorf a raison: l'usage ordinaire opposant l'état de nature à l'état de civilisation, il est clair que l'homme dans le premier état n'est que l'homme, moins tout ce qu'il tient des ins- titutions qui l'environnent dans le second état, c'est-à-dire un homme qui n'est pas homme. Je cite ce jurisconsulte célèbre, quoiqu'il ne soit plus à la mode, parce qu'il exprime des idées qui sont à peu près dans toutes les têtes, et qu'il s'agit seulement de développer. Il est clair que, dans les textes cités, le mot de nature ne peut être pris dans le troisième sens que je lui ai donné d'après l'usage, c'est-à-dire pour l'ensemble des pièces et des forces qui constituent le système de l'univers, car le tout est un ouvrage et non un ouvrier. On ne peut donc prendre le mot de nature que dans les deux premiers sens en tant qu'il exprime une ac- tion, et dans le quatrième en tant qu'il exprime un état. En effet, lorsqu'on dit que la nature destine ou no destine pas un tel être à un tel état. Ce mot de nature réveille nécessairement l'idée d'une intelligence et d'une volonté. Lorsque Puffendorf dit que l'état de nature est contre nature, il ne se contredit point: il donne seulement au même mot deux significations différentes. Dans le premier cas, ce mot si-gnifie un état, et dans le second une cause. Dans le premier cas, il est pris pour l'exclusion de l'art et de la civilisation ; et dans le second, pour l'action d'un agent quelconque. Or, comme dans une équation l'un des membres peut toujours être pris pour l'autre puis- qu'ils sont égaux, pareillement le mot nature, toutes les fois qu'il exprime une action, ne pou- vant signifier que l'action divine, manifestée immédiatement ou par l'intermède d'un agent se- condaire quelconque, il s'ensuit que, sans altérer les valeurs, on peut toujours substituer la va-leur Dieu à celle de nature. La proposition se réduit done à celle-ci: l'état de nature n'est point un état auquel Dieu ait des- tiné l'homme: proposition très-claire et, de plus, très-raisonnable. «Il n'y a point d'absurdité» disait Cicéron, «qui n'ait été soutenue» (il aurait pu ajouter : et il n'y a point de vérité qui n'ait été niée) «par quelque philosophe». Il plut jadis aux épicuriens, ensuite à Lucrèce leur disciple, et de nos jours à Rousseau, de soutenir que l'homme n'est pas un être social; mais Lucrèce est bien plus modéré que Rousseau. Le premier s'est contenté de soutenir qu'à tout prendre, l'état de nature n'a pas plus d'inconvénient que celui d'association27; au lieu que le citoyen de Genève, qui ne s'arrête jamais 27 Nee nimio tum plusquam nune mortalia secla JOSEPH DE MAISTRE
dans le chemin de l'erreur, soutient nettement que la société est un abus: il a fait un livre pour le prouver. Marc-Aurèle n'était pas de cet avis lorsqu'il disait qu'«un être est social par là même qu'il est raisonnable»28. Mais Rousseau remonte à la source pour écarter le sophisme de l'empereur philosophe, et il remarque sagement que l'homme qui médite est un être dégradé29. Cependant Rousseau fait un aveu remarquable au sujet de l'inégalité des conditions, c'est- à-dire de la société. «La religion», dit-il, «nous ordonne de croire que Dieu lui-même ayant tiré les hommes de l'état de nature, ils sont inégaux parce qu'il a voulu qu'ils le fussent; mais elle ne nous défend pas de former des conjectures, tirées de la seule nature de l'homme et des êtres qui l'environnent, sur ce qu'aurait pu devenir le genre humain, s'il fût resté abandonné à lui-même»30. C'est-à-dire que le livre de Rousseau est fait pour savoir ce que serait devenu le genre humain, s'il n'y avait point de Dieu, ou si les hommes avaient agi A SON INSU. Voilà, il faut l'avouer, un livre bien utile! Voltaire, dont le cœur ne valait rien, mais dont la tête était parfaitement saine, fit très-bien de ne répondre à cet ouvrage que par une plaisan-terie31. La raison froide de cet homme avait en horreur ces déclamations boursouflées, ce non-sens éloquent plus insupportable mille fois que les innocentes platitudes des hommes sans pré-tentions. Avant d'examiner si l'homme est fait ou n'est pas fait pour la société, on ne peut se dis- penser d'observer que cette question, de même que toutes celles qu'on peut élever sur la mo- rale et la politique, n'a de sens que dans le système du théisme et du spiritualisme, c'est-à-dire dans le système d'une intelligence supérieure, dont les plans peuvent être contredits par des agents libres d'un ordre inférieur. En effet, s'il n'y a point d'intention primitive et si tout ce qui existe n'est que le résultat d'un enchaînement de causes aveugles, tout est nécessaire: il n'y a plus ni choix, ni moralité, ni bien, ni mal. Rousseau, qui abuse de tous les mots, abuse, plus que de tout autre, de celui de nature. Il Dulcia linquebant labentis lumina vitae. 29 Discours sur l'origine et les fondements de l'Inégalité parmi les hommes. Amsterdam, 1750, in- 8, p. 22. – Ailleurs, il oppose clairement l'état de nature à l'état de raisonnement ( ibidem, p. 72). 30 Ivi, p. 6. On peut déjà observer dans ce passage le défaut capital de Rousseau considéré comme philosophe: c'est d'employer à tout moment des mots sans les comprendre. Par exemple, un être abandonné à lui-même, philosophiquement parlant, est une expression qui ne signifie 31 «Votre livre donne envie de marcher sur quatre pieds : mais comme j'on ai perdu l'habitude, depuis 60 ans, etc». l'emploie, sans le définir, à chaque page du discours sur l'inégalité des conditions; il en fait tout ce qu'il veut; il impatiente le bon sens. Il lui arrive cependant quelquefois de rencontrer la raison par hasard, mais toujours sans vouloir la saisir. «Sans l'étude sérieuse de l'homme», dit-il, … «on ne viendra jamais à bout… de séparer dans l'actuelle constitution des choses, ce qu'a fait la volonté divine, d'avec ce que l'art humain a prétendu faire»32. D'abord, si l'art humain a seulement prétendu faire, il n'a rien fait : ainsi l'ouvrage de Dieu reste dans son intégrité. Mais ne chicanons pas sur les mots avec un homme qui les em-ploie si mal, et supposons qu'il a dit ce qu'il voulait dire. Il s'agit donc de distinguer, dans l'homme, ce que la volonté divine a fait, de ce que l'art humain a fait. Mais qu'est-ce l'art humain? Ce n'était pas assez de la nature; voici encore une autre puis- sance que Rousseau personnifie dans sa langue anti-philosophique, et qu'il introduit sur la scène. Si l'art humain n'est pas la perfectibilité, je ne sais ce que Rousseau a voulu dire. Le castor, l'abeille et d'autres animaux déploient bien aussi un art dans la manière dont ils se logent et se nourrissent: faudra-t-il aussi faire des livres pour distinguer dans chacun de ces animaux ce que la volonté divine a fait, de ce que l'art de l'animal a fait? Mais, dira-t-on, l'art de l'animal est purement mécanique, il fait aujourd'hui ce qu'il a fait hier ; au lieu que l'art de l'homme, aussi varié que ses conceptions, est susceptible de plus et de moins dans une latitude dont il est impossible d'assigner les bornes. Ce n'est point ici le lieu de disputer sur la nature des animaux. Il suffit d'observer que l'art de l'animal diffère de celui de l'homme en cela seul, que chez l'homme il est perfectible, et qu'il ne l'est point chez l'animal. Maintenant, pour simplifier la question, imaginons un homme seul, sur la terre, qui ait duré autant que le genre humain entier, et qui ait réuni en lui toutes les facultés successive-ment déployées par tous les hommes. Par la nature même des choses, il n'a pu être créé enfant, puisqu'il n'aurait pu subsister. Il posséda done en naissant toutes les forces de l'homme adulte et même quelques-unes de nos connaissances acquises : autrement il serait mort de faim avant d'avoir pu découvrir l'usage de sa bouche. Je suppose done que cet homme, souffrant de l'intempérie de l'air, s'abrite dans une ca- verne : jusque-là il est encore homme naturel; mais si, la trouvant trop étroite, il s'avise d'en pro- longer l'abri en tressant à l'entrée quelques branches soutenues par des pieux, voilà de l'art in-contestablement. Cessa-t-il alors d'être homme naturel, et ce toit de feuillage appartient-il à la volonté divine ou à l'art humain? Rousseau aurait probablement soutenu que l'homme était déjà corrompu à cette époque33. Lisez les extravagantes lignes qui commencent l'Emile: vous verrez que tout est bien en sortant des mains de l'auteur des choses; mais que tout dégénère entre les mains de l'homme ; qu'il force une terre à nourrir les productions d'une autre, un arbre à por- ter le fruit d'un autre; … qu'il bouleverse tout, qu'il défigure tout ; qu'il aime les difformités, les 32 Discours sur l'inégalité, préface, p. 69. 33 Le premier qui se fit des habits ou logement se donna en ce la des choses peu néces- saires, puisqu'il s'en était passé jusqu'alors, etc. (Discours, p. 27). JOSEPH DE MAISTRE
monstres, etc. Suivez ce raisonnement, et vous verrez que c'est un abus de faire cuire un œuf. Dès qu'on oppose l'art humain à la nature, on ne sait plus où s'arrêter: il y a peut-être aussi loin de la caverne à la cabane, que de la cabane à la colonne Corinthienne, et comme tout est artifi-ciel dans l'homme en sa qualité d'être intelligent et perfectible, il s'ensuit qu'en lui ôtant tout ce qui tient à l'art, on lui ôte tout. M. Burke a dit, avec une profondeur qu'il est impossible d'admirer assez, que «l'art est la nature de l'homme»: voilà le grand mot qui renferme plus de vérité et plus de sagesse que les ouvrages de vingt philosophes de ma connaissance. «Ce n'est pas une légère entreprise», dit encore Rousseau, «de démêler ce qu'il y a d'originel et d'artificiel dans la nature actuelle de l'homme, et de bien connaitre un état qui n'existe plus, qui peut-être n'a jamais existé»34. Cette dernière supposition est la seule vraie, et il faut avouer que rien n'est plus difficile que de bien connaître un état qui n'a jamais existé. Il est absurde d'imaginer que le Créateur ait donné à un être des facultés qu'il ne doit jamais développer, et encore plus absurde de supposer qu'un être quelconque puisse se donner des facultés, ou se servir de celles qu'il a reçues pour établir un ordre de choses contraire à la volonté du Créateur. La moralité des actions humaines consiste en ce qu'il peut faire bien ou mal dans l'ordre où il est placé, mais point du tout en ce qu'il peut changer cet ordre: car on sent assez que toutes les essences sont invariables. Ainsi il dépend de l'homme de faire bien on mal dans la société, mais non être social ou in-social. Il n'y a donc point eu d'état de nature dans le sens de Rousseau, parce qu'il n'y a jamais eu de moment où l'art humain n'ait existé. Si l'on veut appeler état de nature l'état où était le genre humain lorsque l'industrie des hommes n'avait fait encore qu'un petit nombre de pas mal assu- rés, à la bonne heure: il suffit de s'entendre; mais toujours il reste démontré que, dans les pro- grès de l'espèce humaine vers la perfection des arts et de la civilisation, progrès qui se sont opérés par des nuances imperceptibles, il est impossible de tirer une ligne philosophique qui un état de l'autre. L'animal trouve à sa portée tout ce qui lui est nécessaire. Il n'a pas la puissance de s'approprier les êtres qui l'environnent et de les modifier pour son usage. Au contraire, l'homme ne trouve sous sa main que les matériaux bruts de ses jouissances, et c'est à lui de les perfectionner. Tout résiste à sa puissance animale, tout plie devant son intelligence. Il écrit sur les trois règnes de la nature les titres de sa grandeur, et le sage qui a reçu des yeux pour les lire s'exalte jusqu'au ravissement. L'art humain, ou la perfectibilité, étant donc la nature de l'homme, autrement dit, la quali- té qui le constitue ce qu'il est par la volonté du Créateur, demander ce qui dans l'homme appar- tient à la volonté divine et ce qui appartient à l'art humain, c'est tout comme si l'on demandait ce qui dans l'homme vient de la volonté divine, on de la nature qu'il tient de la volonté divine. Mais ce Rousseau, qui nous représente «l'état de nature comme celui où l'homme ne rai- 34 Discours sur l'inégalité, p. 58. sonnait pas»35, où «il était abandonné à lui-même»36, où, «n'ayant avec son semblable aucune sorte de relation ni de devoir connu, il ne pouvait être ni bon ni méchant»37, où «il vivait isolé dans les bois parmi les animaux»38, où «il errait dans les forêts sans industrie, sans parole, sans liaisons… peut-être même sans jamais reconnaître un de ses semblables individuellement»39, ou «la violence et l'oppression étaient impossibles»40, ce Rousseau, dis-je, avait avancé en com- mençant que ce furent la violence et l'oppression qui mirent fin à l'état de nature ; et ce qu'il débite là-dessus est si étrange, qu'on a besoin de le relire deux fois pour en croire ses yeux. «De quel donc», dit Rousseau, «s'agit-il précisément dans ce discours (sur l'inégalité)? – de marquer, dans le progrès des choses, le moment où le droit succédant à la violence, la nature fut soumise à la loi, d'expliquer par quel enchaînement de prodiges le fort put se résoudre à servir le faible, et peuple à acheter un repos en idée, au prix d'une félicité réelle»41. Les hommes n'étaient donc plus épars; quoique dans l'état de nature, ils étaient cepen- dant réunis en société ; mais la violence s'introduisit parmi eux; et, pour se tirer de cet état qui n'était fatigant que pour les faibles, les forts, qui étaient les maîtres, consentirent à servir les faibles et à soumettre la nature à la loi. Et le peuple, qui était heureux sous l'empire de la violence, changea ce bon heur réel contre le bonheur idéal que donnent les lois. En récapitulant les différents objets que Rousseau se proposait dans son discours sur l'inégalité, on trouve qu'il a fait son livre pour savoir: 1° Ce que le genre humain serait devenu après la création, s'il n'y avait point eu de Créa- 2° Pour distinguer dans la constitution humaine ce qui vient de la volonté divine de ce qui vient de la volonté humaine; 3° Pour se former des idées justes et donner une description parfaite d'un état qui n'a ja- 4° enfin (et c'est de ceci qu'il s'agit PRÉCISÉMENT)42 pour savoir par quel enchainement de JOSEPH DE MAISTRE
prodiges la violence, qui était impossible dans l'état de nature43, força les hommes à sortir de cet état ; et comment le peuple, possédant une félicité réelle sous l'heureux empire de la violence, put se résoudre à l'abdiquer, pour jouir d'un repos en idée sous le dur et insupportable règne de la loi. On ne dira pas que j'ai mis quelque chose du mien dans ce court exposé pour tourner Rousseau en ridicule. Si ce ne sont ses paroles expresses, c'en est le sens. Le meilleur moyen de réfuter ce prétendu philosophe, c'est de l'analyser et de le traduire dans une langue philosophique: alors on est surpris d'avoir pu donner un instant d'attention. La source de ses erreurs, au reste, était dans l'esprit de son siècle, auquel il payait tribut sans s'en apercevoir. Mais ce qu'il avait de particulier, c'était un caractère excessif qui le por- tait toujours à outrer ses opinions. L'erreur, chez d'autres écrivains, s'avance lentement et cache sa marche; mais chez Rousseau elle n'a point de pudeur. Ses idées folles d'indépendance et de liberté l'ont conduit à regretter la condition des animaux et à chercher la véritable desti- nation de l'homme dans l'absence de toute moralité. Il le représente dans son ETAT NATUREL, «nu et sans armes, forcé de défendre sa vie et sa proie contre les AUTRES bêtes féroces»44. Dans cet état, «les enfants ne restent liés au père qu'aussi longtemps qu'ils ont besoin de lui pour se conserver. Sitôt que le besoin cesse, le lien naturel se dissout. Les enfants exempts de l'obéissance qu'ils devaient au père, le père ex des soins qu'il devait aux enfants, rentrent tous également dans l'indépendance»45. Quant à l'union des sexes, «l'appétit satisfait, l'homme n'a plus besoin de telle femme, ni la femme de tel homme. Celui-ci n'a pas le moindre souci ni peut-être la moindre idée des suites de son action. L'un s'en va d'un côté, l'autre d'un autre, et il n'y a pas d'apparence qu'au bout de neuf mois ils aient la mémoire de s'être connus. Cette espèce de mémoire par laquelle un individu donne la préférence à un autre pour l'acte de la génération, suppose plus de pro- grès ou de CORRUPTION dans l'entendement humain qu'on peut lui en supposer dans l'état d'ANIMALITÉ, etc.»46. Tout lecteur honnête et qui a quelque idée de la dignité de sa nature est d'abord révolté par ces absurdes turpitudes; mais bientôt la pitié l'emporte sur la colère, et l'on se contente de dire: 43 «J'entends toujours répéter que les plus forts opprimeront les plus faibles; mais qu'on m'explique ce qu'on veut dire par ce mot d'oppression… Je l'observe parmi nous, mais je ne vois pas comment elle pourrait avoir lieu parmi des hommes sauvages à qui l'on aurait même bien de la peine de faire entendre ce que c'est que servitude et domination… Comment un homme vien-dra-t-il jamais à bout de se faire obéir? …Si l'on me chasse d'un arbre, j'en suis quitte pour aller à un autre» (Discours, etc., p. 89). 45 Contrat social, lib. I, ch. II. 46 Discours, note 10, n° 4, p. 248. Heureux si de son temps, pour cent bonnes raisons, Genève eût possédé des petites maison! Et qu'un sage tuteur l'eût en cette demeure Par avis de parents enfermé de bonne heure! On ne peut imaginer que deux manières de connaître La destination de l'homme: l'histoire et l'anatomie. La première montre ce qu'il a tou- jours été; la seconde montre comment ses organes répondent sa destination, et la certifient. Lorsqu'un naturaliste écrit l'histoire naturelle d'un animal, il n'a d'autre flambeau pour se conduire que celui des faits. Les savants du siècle dernier me paraissent avoir agi plus philoso-phiquement qu'on ne le pense de nos jours, lorsqu'ils appuyèrent la politique sur l'érudition. Cette méthode déplaît beaucoup à nos discoureurs modernes, et ils ont leurs raisons pour la science que de l'acquérir. Rousseau reproche à Grotius «d'établir toujours le droit par le fait». «C'est», dit-il, «sa plus constante manière de raisonner. On pourrait établir une manière plus conséquente, mais non pas plus favorable aux tyrans»47. Comment pas s'étonner de l'extrême légèreté avec laquelle les ignorants de nos jours par- lent de ces prodiges de science qui, dans les deux derniers siècles, ont ouvert, avec des travaux incroyables, toutes les mines que nous exploitons aujourd'hui si commodément? On peut sans doute abuser de l'érudition; mais, en général, ce n'est pas une si mauvaise méthode que celle d'établir le droit par le fait: pour connaître la nature de l'homme, le moyen le plus court et le plus sage est incontestablement de savoir ce qu'il a toujours été. Depuis quand les théories peu-vent-elles être opposées aux faits ? L'histoire est politique expérimentale; c'est la meilleure ou plutôt la seule bonne. Rousseau a traité la politique comme Buffon la physique, et il est, à l'égard des savants que nous dédaignons, ce que le naturaliste français est aux Haller ou aux Spalanzani. On reproche à Grotius d'avoir cité les poètes à l'appui de quelques-uns de ses sys- tèmes; mais pour établir des faits, les poètes sont d'aussi bons témoins que les autres écrivains. M. l'abbé Mau a rendu un véritable service aux sciences en compilant les différentes autorités qui établissent les changements que la température des différents climats a éprouvés depuis les temps anciens. Ovide, en décrivant les froids atroces qu'il éprouvait dans son exil, présente des objets de comparaison très-piquants, et il est aussi bon à citer qu'on historien. Homère, au deuxième livre de l'Iliade, décrit une sédition qui s'éleva parmi les Grecs fatigués du long siége de Troie. Ils courent en foule aux vaisseaux et veulent partir malgré leurs chefs alors la sage Ulysse, poussé par Minerve, se jette au milieu des séditieux et leur adresse entre autres ces pa-roles remarquables: Trop de chefs vous nuiraient; qu'en seul homme ait [l'empire. Vous ne pouvez, ô Grecs, être un peuple de rois. 47 Contrat social, lib. I, ch. II. JOSEPH DE MAISTRE
Le sceptre est à celui qu'il plut au Ciel d'élire Pour régner sur la foule et lui donner des lois48. Ce n'est point du tout une chose indifférente pour moi de savoir ce que le bon sens an- tique pensait se la souveraineté, et lorsque je me rappelle avoir le dans saint Paul que toute puis-sance vient de Dieu; j'aime à lire dans Homère, à peu près dans les mêmes termes, que la dignité (du roi) vient de Jupiter qui le chérit49. J'aime entendre cet oracle de Delphes, rendu aux Lacédémoniens prêts à recevoir les lois de Lycurgue; oracle que Plutarque nous a transmis d'après le vieux Tyrtée, et qui appelle les rois des hommes divinement revêtus de majesté50. J'avoue mon faible: ces textes, quoique pris chez des poètes, m'intéressent davantage, me donnent plus à penser que tout le Contrat social. Il faut savoir gré aux écrivains qui nous apprennent ce que les hommes ont fait et pensé dans tous les temps. L'homme imaginaire des philosophes est étranger à la politique, qui ne travaille que sur ce qui existe. Or, si nous demandons à l'histoire ce que c'est que l'homme, l'histoire nous répond que l'homme est un être social, et que toujours on l'a observé en société. On est fort dispensé, je crois, de l'occuper de quelques hommes sauvages et isolés trouvés dans les bois et vivant à la manière des bêtes. Ces histoires si elles sont vraies, sont des anomalies si rares qu'elles doivent être mises à l'écart dans l'examen de la question qui nous occupe: il serait trop déraisonnable de chercher la nature générale de l'espèce dans les accidents de l'individu. Et il faut bien re- marquer qu'on n'a point droit de nous dire: Prouvez que l'homme a toujours vécu en société, car nous répondrions: Prouvez qu'il a vécu autrement, et, dans ce cas, rétorquer c'est répondre, parce que nous avons pour nous, non-seulement l'état actuel de l'homme, mais son état de tous les siècles, attesté par les monuments incontestables de toutes les nations. Les philosophes, et Rousseau surtout, parlent beaucoup des premiers hommes; mais il fau- drait s'entendre: ces expressions vagues ne présentent aucune idée déterminée: fixons-en le nombre, dix mille, par exemple; plaçons-les même encore quelque part, pour les considérer plus à notre aise, en Asie, par exemple. Ces hommes que nous voyons si bien maintenant, d'où viennent-ils? Descendent-ils d'un ou de plusieurs couples? On peut invoquer ici un principe général, dont l'illustre Newton a fait une des bases de sa philosophie: c'est qu'«on ne doit point admettre en philosophie plus de causes qu'il n'est néces-saire pour expliquer les phénomènes de la nature»51. En effet, comme l'a très-bien dit Pember-ton en expliquant ce principe, «quand un petit nombre de moyens suffisent pour produire un effet, il n'en faut pas mettre en œuvre davantage. La chose est bien claire: car, si l'on se donnait 48 Hom., Iliad. II, v. 203 et seq. , Hom. Iliade ch. II, 197. 50 Plutarque, in Lycur. – Ce n'est pas trop, je crois, pour rendre Θ ο η ου . Graiis dedit ore rotundo Musa loqui. 51 Newton, Éléments de la philosophie, Introd., p. 29, 1755. la licence de multiplier les causes physiques sans nécessité, toutes nos recherches philoso-phiques aboutiraient à un pur pyrrhonisme, puisque la seule preuve que nous puissions avoir de l'existence d'une cause est sa nécessité pour produire des effets connus. Ainsi, quand une cause suffit, c'est peine perdue d'en imaginer une autre, puisque cette autre étant anéantie, l'effet n'en existerait pas moins pour cela». Et Linnée, appliquant cette maxime incontestable à l'objet qui nous occupe dans ce cha- pitre, observe qu' «une longue suite de siècles ayant pu avoir produit des causes accidentelles pour toutes les variétés qu'on remarque dans chaque espèce différente d'animaux, on peut en conséquence admettre comme un axiome qu'il n'y a eu dans l'origine qu'un seul couple de chaque espèce d'animaux qui se multiplient par le moyen des deux sexes»52. Ainsi la raison parle aussi haut que la révélation, pour établir que le genre humain des- cend d'un seul couple. Mais ce couple n'ayant jamais été dans l'état d'enfance, et ayant joui, dès l'instant sa création, de toutes les forces de notre nature, dut nécessairement être revêtu, dès ce même instant, de toutes les connaissances nécessaires à sa conservation; de plus, comme il était seul, il dut encore nécessairement être revêtu d'une force, d'une puissance proportionnée à ses besoins. Enfin, toute l'intelligence créée ayant des rapports naturels avec l'intelligence créatrice, le premier homme dut avoir, sur sa nature, sur ses devoirs, sur sa destination, des connaissances très-étendues et qui en supposent une foule d'autres, car il n'y a point de barba-rie partielle. Ceci nous conduit à une considération très-importante: c'est que l'être intelligent ne peut perdre ses connaissances primitives que par des événements d'un ordre extraordinaire, que la raison humaine réduite à ses propres forces ne peut que soupçonner. Rousseau et tant d'autres font pitié en confondant sans cesse l'homme primitif avec l'homme sauvage, tandis que ces deux êtres sont précisément les deux extrêmes. Les mystères nous environnent de toute part: peut-être que si l'on savait ce que c'est qu'un sauvage et pourquoi il y a des sau- vages, on saurait tout. Ce qu'il y a de sûr, c'est que le sauvage est nécessairement postérieur à l'homme civilisé. Examinons, par exemple, l'Amérique. Ce pays porte tous les caractères d'une terre nouvelle. Or, comme la civilisation est de toute antiquité dans l'ancien monde, il s'ensuit que les sauvages qui habitaient l'Amérique à l'époque de sa découverte descendaient d'hommes civilisés. Il faut nécessairement admettre cette proposition ou soutenir qu'ils étaient sauvages de pères en fils depuis la création, ce qui serait extravagant. Lorsqu'on considère une nation en particulier, on la voit s'élever d'un état quelconque de grossièreté vers le dernier terme de la civilisation, et de là les observateurs superficiels ont conclu que la vie sauvage est le premier état de l'homme, ou, pour me servir de leurs termes dépourvus sens, l'état de nature. Il n'y a que deux erreurs énormes dans cette assertion. En pre-mier lieu, les nations sont barbares dans leur enfance, mais non sauvages. Le barbare est une moyenne proportionnelle entre le sauvage et le citoyen. Il possède déjà une infinité de connais-sances; il a des habitations, une agriculture quelconque, des animaux domestiques, des lois, un culte, des tribunaux réguliers: il ne lui manque que les sciences. Le vie simple n'est pas la vie sauvage. Il existe un monument unique dans l'univers, et le plus précieux dans son genre, à ne le considérer que comme un simple livre historique: c'est la Genèse. Il serait impossible 52 Linnée, cité dans l'Esprit des journaux. Mai 1794, p. 11. JOSEPH DE MAISTRE
d'imaginer un tableau plus naturel de l'enfance du monde. Après ce livre, vient l'Odyssée, longo sed proximus intervallo. Le premier monument ne présente aucune trace de la vie sauvage; et dans le second même, qui est très-postérieur, on trouvera la simplicité, la barbarie, la férocité, mais point du tout l'abrutissement des sauvages. Cet état n'a jamais été observé qu'en Amé- rique; du moins il n'y a point de preuve qu'il ait existé ailleurs. Les Grecs nous ont parlé d'un temps où l'agriculture n'était pas connue de leurs ancêtres, où ils vivaient des fruits spontanés de la terre-ils ont dit qu'ils tenaient cette découverte de la main d'une divinité. On peut penser ce qu'on voudra de l'époque de l'agriculture chez les anciens Grecs. Si la civilisation parfaite a besoin de l'agriculture, la société simplement dite peut s'en passer. D'ailleurs ne sait-ou pas que les Grecs étaient des enfants, comme dit fort bien le prêtre égyptien dans le Timée? Sans la moindre connaissance de l'antiquité, ils ne connaissaient qu'eux, ils rapportaient tout è eux, et pour eux les premiers hommes étaient les premiers habitants de la Grèce. Quand donc il y aurait eu de véritables sauvages parmi les Grecs, ils sont si jeunes qu'on n'en pourrait rien conclure pour l'état primitif de l'homme. Consultons les égyptiens si anciens et si célèbres: que nous diront-ils? Que l'Egypte, après avoir été gouvernée par les huit premiers dieux pendant un espace de temps dont il est impos-sible de fixer le commencement, tomba au pouvoir des douze dieux suivants, près de dix-huit mille ans avant notre ère; que les dieux du troisième ordre régnèrent ensuite durant 2000 ans; que du premier roi-homme qui monta sur le trône, comme tout le monde sait, l'an 12356, jus- qu'à Mœris, il y eut 330 rois dont on ne sait pas le mot, excepté seulement qu'ils régnèrent pendant 10000 ans. Si des égyptiens nous passons aux Orientaux bien plus anciens qu'eux, comme le dé- montre l'inspection seule du terrain de l'Egypte, nous trouverons encore des myriades de siècles, et toujours le règne des dieux précédant celui des hommes. Partout des théophanies, des incarnations divines, et des alliances de héros et de dieux; mais nulle trace de ce prétendu état d'animalité dont quelques philosophes nous ont bercés. Or, il ne faut jamais oublier que les traditions des peuples, et surtout les traditions générales, sont nécessairement vraies dans un sens, c'est-à-dire qu'elles admettent l'altération, l'exagération et autres ingrédients de la fai-blesse humaine, mais que leur caractère général est inaltérable et nécessairement fondé sur la vérité. En effet, une tradition dont l'objet n'est pas un fait particulier ne peut pas commencer contre la vérité: il n'y a aucun moyen de faire cette hypothèse. Si les anciens peuples avaient vécu pendant des siècles dans l'état de brutes, jamais ils n'auraient imaginé le règne des dieux et les communications divines; au contraire, ils auraient brodé sur cet état primitif et les poètes nous auraient peint les hommes broutant dans les forêts, ayant du poil et des griffes, et ne sa-chant pas même parler: et, en effet, c'est ce que nous ont conté les poètes grecs et latins, parce que les Grecs, ayant eu des ancêtres, non pas sauvages, mais barbares, brodèrent sur cet état de barbarie, ainsi que les poètes latins leurs copistes; mais ils ne savaient rien sur l'antiquité, et surtout ils étaient d'une ignorance incroyable sur les langues anciennes. C'est ce qui obligeait leurs sages de voyager, et d'aller, sur les bords du Nil ou du Gange, interroger des hommes plus Plus on consultera l'histoire et les traditions antiques, et plus on se convaincra que l'état de sauvage est véritable anomalie, une exception aux règles générales; qu'il est postérieur à l'état social; que s'il a existé plus d'une fois, il est au moins très-rare dans la durée générale; qu'il n'a existé incontestablement qu'en Amérique, et qu'au lieu de rechercher comment le sauvage peut de son état d'abrutissement s'élever à la civilisation, c'est-à-dire comment une plante courbée peut se redresser, il vaudrait mieux se faire la question contraire. On a trouvé dans l'Amérique septentrionale une inscription et des figures antiques que Court de Gebelin a expliquées d'une manière risible dans son Monde primitif. On a trouvé dans le même pays, encore plus au Nord, les traces d'une fortification régulière. Les hommes, auteurs de ces monuments, étaient-ils les ancêtres des Américains modernes, ou ne l'étaient-ils pas? Dans la première hypothèse, comment ce peuple s'est-il abruti sur son sol? Dans la seconde, comment s'est-il abruti ailleurs, et est-il venu se substituer à un peuple civilisé qu'il a fait dis- paraitre, ou qui avait disparu avant l'arrivée de ces nouveaux habitants? Ce sont là des ques- tions intéressantes, faites pour exercer toute la sagacité de l'esprit humain. Sans doute, per- sonne n'a droit d'exiger des solutions claires: nous observons depuis si peu de temps, nous sa-vons si peu de choses sur la véritable histoire des hommes, qu'on ne peut guère exiger des meil- leurs esprits, que des conjectures plus on moins plausibles; mais ce qui impatiente, c'est de voir ces hommes qui passent à côté des plus grands mystères sans s'en apercevoir, venir ensuite, d'un ton hautain et apocalyptique, nous débiter en style d'initié ce que tous les enfants savent et ce que tous les hommes ont oublié; aller chercher l'histoire de l'homme primitif dans quelques faits particuliers et modernes; feuilleter quelques voyageurs d'hier, tirer de leurs ré-cits le vrai et le faux et nous dire fastueusement: «O HOMME! De quelque contrée que tu sois, quelles que soient tes opinions, écoute: voici ton histoire telle que j'ai cru la lire53, non dans les livres de tes semblables, qui sont menteurs, mais dans la nature, qui ne ment jamais». Ne dirait-on pas que Rousseau n'est pas le semblable de ses lecteurs; que son discours n'est pas un livre; que lui seul, parmi tous les hommes qui ont existé, a pu lire dans la nature, et que cette vieille nourrice lui a dit tous ses secrets? En vérité, on ne conçoit pas comment de pa-reilles jongleries ont pu obtenir un instant d'attention. Partout où l'homme a pu observer l'homme, il l'a toujours trouvé en société: cet état est donc pour lui l'état de nature. Peu importe que cette société soit plus ou moins perfectionnée chez les différentes familles humaines: c'est toujours la société. Les sauvages mêmes ne font point d'exception, d'abord parce qu'ils vivent aussi en société et parce qu'ils ne seraient d'ailleurs qu'une dégradation de l'espèce, une branche séparée, on ne sait comment, du grand arbre social. L'anatomie de l'homme, de ses facultés physiques et morales achèverait la démonstration, s'il manquait quelque chose à celle que l'histoire nous fournit. Sa main lui soumet tout ce qui l'environne. Les substances les plus réfractaires du règne minéral cèdent à son action puis-sante. Dans le règne végétal et dans le règne animal son empire est encore plus frappant: non-seulement il s'assujettit une foule d'espèces de ces deux ordres, mais il les modifie, il les perfec-tionne, il les rend plus propres à sa nourriture ou à ses plaisirs; les animaux avec lesquels il peut avoir des rapports doivent le servir, le nourrir, l'amuser on disparaitre. La terre sollicitée par ses travaux lui fournit une infinité de productions. Elle nourrit les autres animaux, elle n'obéit qu'à lui. L'agent universel, le feu, est à ses ordres et n'appartient qu'à lui. Toutes les 53 C'est à peu près le seul mot qu'on puisse passer dans le Discours sur l'inégalité. JOSEPH DE MAISTRE
substances connues sont unies, divisées, durcies, ramollies, fondues, vaporisées par l'action puissante de cet élément. Son art, combinant l'eau et le feu, se procure des forces incalculables. Des instruments admirables le transportent au milieu des sphères célestes, il les compte, il les mesure, il les pèse; il devine ce qu'il ne peut voir; il ose plus qu'il ne peut; mais lors même que ses instruments sont faux et que ses organes le trahissent, ces méthodes n'en sont pas moins justes, l'exactitude est dans sa pensée, et souvent il est plus grand par ses tentatives que par ses succès. Ses excursions hardies dans le monde moral ne sont pas moins admirables, mais ses arts et ses sciences sont des fruits de l'état social, et le domaine qu'il exerce sur la terre tient abso- lument à la même cause. Semblables aux lames d'un aimant artificiel, les hommes n'ont de force que par leur union; isolés, ils ne peuvent rien, et c'est l preuve que l'état social est naturel car il n'est pas permis de supposer que Dieu ou la nature, si l'on veut parler le langage ordinaire, ait donné à l'homme des facultés qu'il ne devait pas déployer. Cette contradiction métaphy- sique n'entrera dans aucune tête saine. «J'ai montré», dit Rousseau, «que la perfectibilité, les vertus sociales et les autres facultés que l'homme naturel avait reçues en puissance ne pou- vaient jamais se développer d'elles-mêmes; qu'elles avaient besoin pour cela du concours for-tuit de plusieurs causes étrangères, qui pouvaient ne jamais naître, et sans lesquelles il fût de-meuré éternellement dans sa condition primitive». C'est-à-dire que Dieu avait donné à l'homme des facultés qui devaient demeurer en puis- sance, mais que des événements fortuits qui pouvaient ne pas arriver les out fait passer à l'acte. Je doute qu'on ait jamais dit une bêtise de cette force. Celui qui l'a prononcée n'existant plus, rien n'empêche qu'on appelle les choses pas leur nom. C'est très mal à propos que la perfectibilité est mise ici sur la même ligne comme une fa- culté particulière avec les vertus sociales et les autres facultés humaines. La perfectibilité n'est point une qualité particulière de l'homme; elle est, s'il est permis de s'exprimer ainsi, la qualité de toutes ses qualités. Il n'y a pas en lui une seule puissance qui ne soit susceptible de perfec-tionnement; il est tout perfectible; et dire que cette faculté pouvait demeurer en puissance, c'est dire que, non-seulement dans être individuel, mais dans une classe entière d'êtres, l'essence pouvait demeurer en puissance; et, encore une fois, il est impossible de qualifier cette assertion. Il est aisé de faire l'anatomie de cette erreur et de montrer comment elle s'était formée. Rousseau ne voyait en tout que l'écorce des choses; et comme il n'approfondissait rien, son ex- pression s'en ressentait. On peut observer, dans tous ses ouvrages, qu'il prend tous les mots abstraits dans leur acception populaire: il parle, par exemple, de cas fortuits qui auraient pu ne pas arriver. Sortons des généralités, et venons à des suppositions particulières. Il voit deux sau-vages isolés qui, se promenant chacun de leur côté, viennent à se rencontrer et prennent fan-taisie de vivre ensemble: il dit qu'ils se rencontrent par hasard. Il voit une graine détachée d'un arbuste et tombant sur une terre disposée pour la féconder; il voit un autre sauvage qui, s'apercevant de la chute de la graine et de la germination qui en est la suite, reçoit ainsi la pre- mière leçon d'agriculture: il dit que la graine est tombée par hasard, que le sauvage l'a vue par hasard, et, comme il n'est pas nécessaire qu'un tel homme en rencontre un autre, et que telle graine tombe, il appelle ces événements des cas fortuits qui pouvaient ne pas arriver. En tout cela, sa gouvernante aurait parlé précisément comme lui. Sans examiner si l'on peut dire et jusqu'à quel point l'on peut dire que ce qui arrive pouvait ne pas arriver, il est certain au moins que les plans généraux du Créateur sont invariables: par conséquent, si l'homme est fait pour la société, un tel sauvage pourra bien ne pas en rencontrer un autre; mais il faudra en général que les sau-vages se rencontrent54 et deviennent des hommes. Si l'agriculture est propre à l'homme, il sera bien possible qu'une telle graine ne tombe pas sur une telle terre; mais il est impossible que l'agriculture ne soit pas découverte de cette manière ou d'une autre. Les facultés de l'homme prouvent donc qu'il est fait pour la société, parce qu'une créature ne peut avoir reçu des facultés pour n'en pas user. De plus, l'homme étant un être actif et per-fectible, et son action ne pouvant s'exercer que sur les êtres qui l'environnent, il s'ensuit que ces êtres ne sont pas d'eux-mêmes ce qu'ils doivent être, parce que ces êtres sont coordonnés avec l'existence et les attributs de l'homme, et qu'un être ne peut agir sur un autre qu'en le modifiant. Si les substances étaient réfractaires autour de l'homme, sa perfectibilité serait une qualité vaine puisqu'elle n'aurait ni objets ni matériaux. Donc le bœuf est fait pour labourer, le cheval pour être bridé, le marbre pour être taillé, le sauvageon pour être greffé, etc. Donc l'art est la nature de l'homme, donc l'ordre que nous voyons est l'ordre naturel. La parole d'ailleurs prouverait seule que l'homme est un être social par essence. Je ne me permettrai aucune réflexion sur l'origine de la parole. Assez d'enfants ont balbutié sur ce sujet sans que je vienne encore faire entendre la voix d'un autre. Il est impossible d'expliquer par nos petits moyens l'origine du langage et ses diversités. Les langues ne peuvent être inventées ni par un seul homme qui n'aurait pu se faire obéir, ni par plusieurs hommes qui n'auraient pu s'accorder. La parole ne saurait exprimer ce que c'est que la parole. Bornons-nous à dire sur cette faculté ce qui a été dit de celui qui s'appelle PAROLE. Qui pourra raconter son origine ? Je me permettrai seulement une observation, c'est qu'on fait assez communément, sur l'origine du langage, le même sophisme que sur l'origine de la civilisation on examine l'origine d'une langue, au lieu de remonter à celle du langage, comme on raisonne sur la civilisation d'une fa- mille humaine en croyant parler de celle du genre humain. Quand la langue d'une horde sau- vage n'aurait que trente mots, serait-il permis d'en conclure qu'il fut un temps ou ces hommes ne parlaient pas, et que ces trente mots sont inventés? Point du tout, car ces mots seraient un souvenir et non une invention, et il s'agirait de savoir au contraire comment cette horde, descen- dant nécessairement d'une des nations civilisées qui ont passé sur le globe, comment dis-je, il est possible que la langue de cette nation se soit ainsi rapetissée et métamorphosée, au point de n'être plus qu'un jargon pauvre et barbare. C'est, en d'autres termes, la même question qui a été proposée plus haut sur les sauvages, car la langue n'est qu'un portrait de l'homme, une es- pèce de parhélie qui répète l'astre tel qu'il est. Au reste, je suis bien éloigné de croire que les langues des sauvages soient aussi pauvres qu'on pourrait l'imaginer. Les voyageurs qui les ont apprises nous ont transmis des discours tenus par ces sauvages, qui nous donnent une idée assez avantageuse de la richesse et de l'énergie de leurs langues. Tout le monde connait cette réponse d'un sauvage auquel un Euro-péen conseillait de changer de demeure avec toute sa tribu. «Comment veux-tu que nous fas-sions», lui dit le sauvage, «quand nous pourrions nous déterminer à partir, dirions-nous aux os 54 Je raisonne d'après les hypothèses de Rousseau, et sans prétendre donner à la société une origine aussi fausse. JOSEPH DE MAISTRE
de nos pères levez-vous et suivez-nous?». Certes le dictionnaire de ce brave homme devait avoir une certaine étendue. Horace soupant chez Mécène, où l'on parlait fort bien, pouvait appeler à son aise les premiers hommes: troupeau vil et muet55; mais ces hommes muets n'ont jamais existé que dans l'imagination des poètes. La parole est aussi essentielle à l'homme que le vol l'est à l'oiseau. Dire qu'il fut un temps o la parole était en puissance chez l'espèce humaine, et dire qu'il fut un temps où l'art de voler était en puissance chez l'espèce volatile, c'est absolument la même chose. Dès que l'aile est formée, l'oiseau vole. Dès que a glotte et les autres organes de la parole sont formés, l'homme parle. Pendant qu'il apprend, l'organe n'est pas formé, mais il se perfec- tionne avec la pensée et il exprime toujours tout ce qu'il peut exprimer. Ainsi, à proprement parler, chez l'enfance même, l'organe ne demeure point en puissance: car dès qu'il est formé et même pendant qu'il se forme, il passe à l'acte, sous l'empire d'une première cause intelligente. On ne sait ce que c'est qu'une faculté qui peut ne pas se déployer; on ne sait ce que c'est qu'un organe inorganique. Mais si l'homme et fait pour parler, c'est apparemment pour parler à quelqu'un; et cette faculté vraiment céleste étant le lien de la société, l'organe de toutes les entreprises de l'homme et le moyen de sa puissance, elle prouve qu'il est social, comme elle prouve qu'il est raisonnable, la parole n'étant que la raison extérieure ou la raison manifestée. Concluons donc toujours, comme Marc-Aurèle: l'homme est social parce qu'il est raisonnable. Ajoutons encore: mais il est corrompu dans son essence, et par conséquent il lui faut un gouvernement. II. CHAPITRE SECOND L'HOMME NAIT MOUVAIS DANS UNE PARTIE DE SON ESSENCE. L'homme est une énigme le nœud n'a cessé d'occuper les observateurs. Les contradictions qu'il renferme étonnent la raison et lui imposent silence. Qu'est-ce donc que cet être inconce- vable qui porte en lui des puissances qui se heurtent, et qui est obligé de se haïr pour s'estimer? Tous les êtres qui nous entourent n'ont qu'une loi et la suivent en paix. L'homme seul en a deux; et toutes les deux l'attirant à la fois en sens contraire, il éprouve un déchirement inexpli-cable. Il a un but moral vers lequel il se tient obligé de marcher, il a le sentiment de ses devoirs et la conscience de la vertu; mais une force ennemie l'entraîne, et il la suit en rougissant. Sur cette corruption de la nature humaine tous les observateurs sont d'accord, et Ovide parle comme saint Paul: Je vois le bien, je l'aime, et le mal me séduit56. 55 «Mutum et turpe pecus» (Horace, Sat., I, 3). 56 «Video meliora probque; deteriora sequor » (Ovide, Mètam.). Mon Dieu ! quelle guerre cruelle! Je sens deux hommes en moi57. Xénophon s'écriait aussi par la bouche de l'un des personnages de la Cyropédie: Ah! Je me connais maintenant et j'éprouve sensiblement que j'ai deux âmes, l'une qui me porte au bien, et l'autre qui m'entraîne vers le mal58. Epictète avertissait l'homme qui veut s'avancer vers la perfection de se défier de lui- même comme d'un ennemi et d'un traitre59. Et le plus excellent moraliste qui ait écrit n'avait pas tort de dire que le grand but de tous nos efforts doit être de nous rendre plus forts que nous-mêmes. Rousseau sur ce point ne peut contredire la conscience universelle. «Les hommes sont méchants», dit-il, «une triste et continuelle expérience dispense de la preuve»60. Mais il ajoute tout de suite avec un orgueil tranquille qui fait éclater de rire: «cependant l'HOMME est natu-rellement bon: je crois l'avoir démontré»61. Comme cette démonstration est un peu délayée dans les différents ouvrages de Rousseau, il est bon de la dépouiller de son entourage et de la présenter au lecteur, réduite à sa plus simple expression. L'homme est naturellement bon si ses vices ne découlent pas de sa nature. Or, tous les vices de l'homme viennent de la société qui est contre la nature: Donc l'homme est naturel ement bon. Qu'on feuillette Rousseau tant qu'on voudra: on ne trouvera rien de plus sur la question, c'est sur ce tas de sable que reposent les grands édifices du Discours sur l'inégalité, de l'Émile et même en partie du Contrat social. Les développements de ce syllogisme sont admirables: par exemple si vous trouvez que l'adultère trouble un peu la société, Rousseau vous répondra tout de suite: «Pourquoi vous ma-riez-vous? On vous prend votre femme parce que vous en avez une: c'est votre faute; de qui vous plaignez-vous? Dans l'état de nature, qui est le bon, on ne se marie point, on s'accouple. L'appétit satisfait, l'homme n'a plus besoin de telle femme, ni la femme de tel homme… l'un s'en va d'un côté et l'autre d'un autre… La préférence donnée par un individu à l'autre pour l'acte de la génération suppose… plus de corruption dans l'entendement humain qu'on ne peut 57 Racine d'après saint Paul: «Sentio legem repugnantem, etc.» . 58 Xénophon, Cyropédie. 59 Epietète, Enchiridion, cap. 72. 60 Discours sur l'inégalité, note 7, p. 25. 61 Ibidem – Observez cette finesse métaphysique: « Les hommes sont mauvais, mais l'homme est bon. Homme, ne vis donc qu'avec l'homme et garde -toi des hommes». JOSEPH DE MAISTRE
lui en supposer dans l'état d'animalité»62. Si le spectacle d'un fils dénaturé vous révolte, c'est encore la faute de la société car, dans l'état de nature, les enfants ne sont liés au père qu'aussi longtemps qu'ils ont besoin de lui pour se conserver, dès que le besoin cesse, le lien naturel se dissout, l'enfant est exempt d'obéissance, comme le père est exempt de soins63. Les voleurs vous déplaisent-ils? Songez que c'est la propriété qui rait les voleurs, et que la propriété est directement contre nature; que, suivant l'axiome du sage Locke très-bien appli- qué, il ne saurait y avoir d'injure où il n'y a point de propriété64, que les guerres, les meurtres, les misères, les crimes et les horreurs de toute espèce qui accablent le genre humain sont l'ouvrage du premier audacieux qui ayant enclos un terrain s'avisa de dire: ceci est à moi65. La tyrannie et tous les maux qu'elle enfante n'ont pas d'autre source. En effet, «quelles pourraient être les chaines de la dépendance parmi les hommes qui ne possèdent rien? Si l'on me chasse d'un arbre, j'en suis quitte pour aller à un autre; si l'on me tourmente dans un lieu, qui m'empêchera de passer ailleurs?». Supposez qu'un homme soit assez fort pour m'enchainer: «sa vigilance se relâché-t-elle un moment: je fais vingt pas dans la forêt, mes fers sont brisés, il ne me revoit de sa vie66, et le tyran redevient bon». Ainsi, la preuve que l'homme est naturellement bon, c'est qu'il s'abstient de tout le mal qu'il ne peut commettre. Ailleurs cependant, Rousseau est plus raisonnable. « En méditant», dit-il, «sur la nature de l'homme, j'y crus découvrir deux principes distincts (l'un bon et l'autre mauvais). En me sentant entraîné, combattu par ces deux mouvements contraires, je me disais: non, l'homme n'est point un: je veux et je ne veux pas; je me sens à la fois esclave et libre; je vois le bien, je l'aime, et je fais le mal»67. Je n'examine point la conclusion pitoyable que Rousseau tire de cette observation: elle prouverait seule qu'il n'a jamais vu que la superficie des objets; mais je n'écris point sur la mé-taphysique. C'est bien dommage, au reste, que Rousseau ait découvert le mauvais principe qui est dans l'homme: sans lui Socrate aurait eu la priorité. Un de ses plus illustres disciples nous a transmis les idées de son maître sur cette étonnante contradiction qui est dans l'homme. La nature, disait Socrate, a réuni dans cet être les principes de la sociabilité et de la dissension: car d'un côté nus voyons que les hommes ont besoin de s'entre aider, qu'ils éprouvent le sentiment de la pitié pour les malheureux, qu'ils ont un penchant naturel à s'accorder du secours dans leurs besoins mutuels, et qu'ils ont de la reconnaissance pour les services qu'ils reçoivent; mais, d'un autre 62 Discours sur l'inégalité, note 10, n° 4. 63 Contrat social, I. I, ch. II. 64 Discours sur l'inégalité, p. 114. 65 Ivi, p. 95. 66 Ivi, pp. 90-91. 67 Émile, I. IV. côté, si le même objet allume les désir de plusieurs, ils se battent pour le posséder, et tâchent de se supplanter; la colère et les contestations produisent l'inimitié, la convoitise étouffe la bien-veillance, et de l'envie nait la haine68. Mais si l'un des principes découverts dans l'Émile «ramène l'homme bassement en lui- même, l'asservit à l'empire des sens aux passions qui sont leurs ministres et contrarie par elles tout ce que lui inspire l'autre principe»69, à quoi sert que celui-ci «l'élève à l'étude des vérités éternelles, à l'amour de la justice et du beau moral, aux régions du monde intellectuel dont la contemplation fait les délices du sage?»70. Puisque l'homme est composé d'un principe qui con- seille le bien, et d'un autre qui fait le mal, comment un tel être pourrat-il vivre avec ses sem- blables? Hobbes a parfaitement raison, pourvu qu'on ne donne point trop d'extension à ses principes. La société est réellement un état de guerre: nous trouvons donc ici la nécessité du gouvernement; car puisque l'homme est mauvais, il faut qu'il soit gouverné; il faut que, lorsque plusieurs veulent la même chose, un pouvoir supérieur à tous les prétendants adjuge la chose et les empêche de se battre: donc il faut un souverain et des lois; et, sous leur empire même, la so-ciété n'est-elle pas encore un champ de bataille en puissance? Et l'action des magistrats qu'est- elle autre chose qu'un pouvoir pacificateur et permanent, qui s'interpose sans relâche entre les citoyens, pour défendre la violence, ordonner la paix, et punir les infracteurs de la grande trêve de Dieu? Ne voyons-nous pas que, lorsque des révolutions politiques suspendent cette puissance divine, les nations malheureuses qui subissent ces commotions tombent brusquement dans cet état de guerre, que la force s'empare du sceptre, et que cette nation est tourmentée par un dé-luge de crimes. Le gouvernement n'est donc point une affaire de choix; il résulte de la nature même des choses. Il est impossible que l'homme soit ce qu'il est et qu'il ne soit pas gouverné, car un être social et mauvais doit être sous le joug. Les philosophes de ce siècle, qui ont ébranlé les bases de la société, ne cessent de nous parler des vues que les hommes eurent en se réunissant en socié-té. Il suffit de citer Rousseau parlant pour tous. «Les peuples», dit-il, «se sont donné des 68 Xénophon, Memor. Socr., I. II, ch. VI. «On voit tous les jours, dans nos spectacles, s'attendrir et pleurer aux malheurs d'un infortuné, tel qui, s'il était à la place du tyran, aggrav e-rait encore les tourments de son ennemi» (Rousseau, Discours sur l'inégalité, p. 71) – On pourrait dire pour employer des couleurs moins noires : tel qui sifflerait le plus bel endroit de la pièce, si l'auteur était son ennemi. C'est toujours le même observation sous des formes différentes. 69 Émile, l. IV. 70 L'école de Zénon, en méditant sur la nature de l'homme, avait découvert qu'elle est v i- ciée, et que l'homme, pour vivre d'une manière conforme à sa destination, avait besoin d'une force purifiante ( ) plus forte que la philosophie ordinaire qui parle beaucoup et ne peut rien: (Epict., apud Agellium, lib. XVII, cap. XIX) et il faut avouer que les machines inventées par les stoïciens pour guider l'homme au-dessus de lui-même n'étaient pas mauvaises, en attendant mieux. JOSEPH DE MAISTRE
chefs pour défendre leur liberté et non pour les asservir»71. C'est une erreur grossière, mère de beaucoup d'autres. L'homme ne s'est rien donné; il a tout reçu: il a des chefs parce qu'il ne peut pas s'en passer, et la société n'est pas et ne peut être le résultat d'un pacte, elle est celui d'une loi. L'auteur de toutes choses, n'ayant pas jugé à propos de soumettre l'homme à des êtres d'une nature supérieure, et l'homme devant être gouverné par son semblable, il est clair que ce qu'il y a de bon dans l'homme devait gouverner ce qu'il y a de bon dans l'homme devait gou- verner ce qu'il y a de mauvais. L'homme, comme tout être pensant, est ternaire de sa nature. C'est un entendement qui appréhende, c'est une raison ou un logos qui compare et qui juge, c'est un amour ou une volonté qui se détermine et qui agit; or, quoiqu'il soit affaibli dans ses deux premières puissances, il n'est réellement blessé que dans la troisième, et même encore coup qu'elle a reçu ne l'a pas privée de ses qualités primitives; elle veut le mal, mais voudrait le bien; elle s'agit, elle tourne sur elle-même, elle rampe péniblement comme un reptile dont on a brisé un anneau; la demi-vie qui lui reste fut exprimée très-philosophiquement par une assemblée d'hommes qui n'étaient point philosophes, lorsqu'ils dirent que la volonté de l'homme (ou sa li- berté, c'est la même chose) est estropiée. Les lois de la justice et du beau moral sont gravées dans nos âmes en caractères ineffa- çables, et le plus abominable scélérat les invoque chaque jour. Voyez ces deux brigands qui at-tendent le voyageur dans la forêt; ils le massacrent, ils le dépouillent: l'un prend la montre, l'autre la boîte, mais la boîte est garnie de diamants: «CE N'EST PAS JUSTE! S'écrie le premier, il faut partager également». O divine conscience, ta voix sacrée ne cesse point de se faire en-tendre: toujours elle nous fera rougir de ce que nous sommes, toujours elle nous avertira de ce que nous pouvons être. Mais puisque cette voix céleste se fait toujours entendre, et se fait même toujours obéir lorsque l'homme n'est pas ramené bassement en lui-même par ce mauvais principe qui l'asservit à l'empire des sens et aux passions qui sont leurs ministres, puisque l'homme est infaillible quand son intérêt grossier ne se place pas entre sa conscience et la véri-té, il peut donc être gouverné par son semblable, pourvu que celui-ci ait la force de se faire obéir. Car la puissance souveraine résidant sur une seule tête, ou sur un petit nombre de têtes par rapport à celui des sujets, il y aura nécessairement une infinité de cas où cette puissance n'aura aucun intérêt d'être injuste. De là résulte, en théorie générale, qu'il vaut mieux être gouverné que ne l'être pas, et que toute association quelconque sera plus durable et marchera plus sûrement vers son but si elle a un chef, que si chaque membre conservait son égalité à l'égard de tous les autres; et plus le chef sera séparé de ses subordonnés, moins il aura de con-tact avec eux, plus l'avantage sera sensible, parce qu'il y aura moins de chance en faveur de la passion contre la raison. FIN DU SEPTIME VOLUME 71 Discours sur l'inégalité, p. 146. Appendice.
Riferimenti bibliografici contenuti nel manoscritto di J. de Maistre

Riferimenti ad autori e opere moderne.

Di sole due opere citate in nota Joseph de Maistre dà indicazione dell'anno di edizione; in
una di queste, con riferimento al secondo Discours oggetto del suo examen, egli erroneamente confonde la data di pubblicazione con quella di un'altra opera del ginevrino. Il riferimento in corsivo ripropone l'indicazione bibliografica così come si presenta nel testo. Tra parentesi sono stati posti i nomi degli autori omessi nel testo originale. - Rad. Cudworthi systema intellect. Hujus univ. cum not. Laur. Moshemii in praef. = Radulphi Cudworthi, Systema intellectuale hujus universi, seu de veris naturæ rerum originibus commentarii, con prefazione di Johann Lorenz Mosheim, Lugduni Batavorum, apud Samuelem et Johannem Luchtmans 1773 (?); - Chrysost., apud Grot., de jure = passo dell'oratore, scrittore, storico greco antico Dione Crisostomo (circa 40 - 120 d.C.) che dovrebbe essere citato da U. Grozio, De Iure Belli ac Pacis in un'edizione non indicata; si tratta in realtà di una citazione a memoria dell'autore, poiché all'interno dell'opera di Grozio tale riferimento non si trova; - Linnée, cité dans l'Esprit des journaux., Mai 1794 = si tratta di una citazione tratta dal men- sile di critica letteraria francese «L'Esprit des journaux françois et étrangers par une société de Gens-de-Lettres», che uscì dal luglio 1772 all'aprile 1818, con interruzione da aprile ad agosto 1803 e dal gennaio 1815 al marzo 1817, e la cui intera collezione è compresa in 480 volumi; - Newton, Éléments de la philosophie, 1755 = J. de Maistre fa riferimento ad un'edizione ri- dotta dell'opera newtoniana curata da Henry Pemberton e pubblicata per la prima volta nel 1728 con il titolo View of Sir Isaac Newton's Philosophy; - (Samuel von Pufendorf), Droit de la nature et des gens, trad. De Barbeyrac = la prima edi- zione francese dell'opera del giurista S. von Pufendorf, tradotta da Jean Barbeyrac, comparve nel 1706 in due volumi; tuttavia J. De Maistre non dà indicazione dell'edizione citata; - J. J. Rousseau, Discours sur l'origine et les fondements de l'Inégalité parmi les hommes. Amster- dam, 1750, in-8 = in quest'indicazione bibliografica ci troviamo di fronte ad un evidente errore: il titolo dell'opera rinvia al secondo Discours del 1755, mentre la data è quella del primo Discours. L'autore si riferisce in effetti ad un passo contenuto nella prima parte del secondo Discours, del 1755, in cui il ginevrino tratta della degenerazione JOSEPH DE MAISTRE
dell'uomo per mezzo della riflessione, affermando arditamente che lo stato di rifles-sione è uno stato contro natura. Tale critica moralistica all'assenza di relazione di al-cune arti e scienze con lo sviluppo della virtù si ritrova certamente anche all'interno del primo Discours, ma l'autore si riferisce qui al solo scritto rousseauiano del 1755; - (ID.), Discours sur l'inégalité = tranne l'erroneo rinvio bibliografico a quest'opera presen- te in J. de Maistre, Oeuvres complètes, op. cit., p. 528 (sopra p. 201), nel testo non vi sono altre indicazioni sull'edizione di riferimento che il savoiardo ha impiegato per il suo studio rousseauiano a Losanna. Ogniqualvolta l'autore cita il Discours in nota, egli si ri-ferisce sempre e solo al secondo discorso di Rousseau; - (ID.), Contrat social = nei quattro riferimenti a quest'opera presenti in nota, l'autore non dà alcuna indicazione di pagina, ma rinvia a sezioni e capitoli; - (ID.), Émile = anche nel caso dei due rinvii a quest'opera presenti nelle note, entrambi al libro I, capitolo IV, è assente qualsiasi indicazione di pagina.
Riferimenti alla letteratura classica.

Nessuna indicazione di eduzione è riportata nelle note di riferimento ai classici. Come so-
pra, gli autori riportati tra parentesi sono quelli omessi dal savoiardo nelle sue citazioni. I nomi in tondo indicano autori ai quali nel testo si fa riferimento, pur in assenza di un rinvio esplicito da parte dell'autore. - M. Aur. X. = Marco Aurelio, non è indicata l'opera da cui l'autore riporta una citazione in greco a p. 528; seguendo l'indicazione fornita in nota da Y. Constantinidès nella sua edizione della presente opera del 2008, il savoiardo avrebbe tratto la frase dai Pensieri di Marco Aurelio; - Cicerone, Della divinazione; l'autore si riferisce a quest'opera a p. 528 del settimo volu- me delle Oeuvres complètes (sopra p. 199), senza tuttavia fornire alcuna indicazione precisa; - Epietète, Enchiridion = Epitteto, Il manuale di Epitteto; - Epict., apud Agellium, lib. XVII, cap. XIX = Yannis Constantinidès non fornisce alcun chia- rimento in merito all'opera sommariamente indicata da J. de Maistre, precisando solo che l'autore avrebbe utilizzato una «recueil ancien» e che il passo sarebbe tratto non da Epitteto, ma dal suo discepolo Flavio Arriano (circa 95 – 175 d.C.); si vedano le note di Constantinidès a J. DE MAISTRE, Contre Rousseau: de l'état de nature, Mille et une nuits, Paris 2008. La ‘raccolta antica' in questione potrebbe essere un'opera del bibli-sta e vescovo Antonio Agelli (1532 - 1608), ma questa rimane una semplice congettura. - (Lucrezio), De Nat. Rer.= Lucrezio, Sulla natura delle cose; - Hom., Iliad. = Omero, Iliade; - Horace, Sat.= Orazio, Satire; - Orazio, L'arte poetica; la citazione in latino Infelix operis summa quia ponere totum nescit, presente a p. 522 (sopra p. 197) e priva di qualsiasi riferimento bibliografico, è tratta da questa opera di Orazio; - Ovide, Mètam. = Ovidio, Le metamorfosi; - Xénophon, Cyropédie = Senofonte, Ciropedia; - (ID.), Memor. Socr., I, II, ch. VI = ID., Memorabili di Socrate; - Platone, Timeo; - Plutarque, in Lycur. = Plutarco, Vita di Licurgo; - San Paolo, Lettera ai Romani; - Virgilio, Eneide; l'autore riporta a memoria un passo virgiliano a p. 545 dell'edizione dell'Examen all'interno delle Oeuvres complètes (sopra p. 207).

Source: http://rosministudies.centrostudirosmini.it/index.php/rosministudies/article/download/21/67

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